THOMAS SERVIGNANI


"di difficile collocazione"


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ALCUNI SCRITTI


ESTRATTI DA OPERE PUBBLICATE

Nella pietra
Archeologico futuro
Visioni
Biocco e Nedo
Poi dice che uno
NP Completo
Saenae


RACCONTI INEDITI

Vette, ovvero inquietudini sul tema di dio
L'impostore
Signore abbi pietà di me!
Lei non sa chi sono io
Lucio Livio Cagliozzi alla resa dei conti
In morte di Ondo Peroni
E. J. Barringmore, XXI duca di Essex
Il fiammifero
La caccia


Romanzo SAENAE

SINOSSI
Sullo sfondo di una immaginaria città di Siena all’apice del suo fulgore commerciale e artistico, nel tardo medioevo, si svolge una corsa di cavalli alla lunga tra le due fazioni della città. Si narra la storia delle aspettative, delle lotte intestine e degli attriti con Firenze, del valore simbolico che assume la corsa, la cui vittoria assegna un primato virtuale che trascende il fatto stesso, per cui per essa si spendono fortune e si perde il sonno, si cercano i migliori fantini e i migliori cavalli. L’accesa rivalità sfocia nel rischio di uno scontro armato tra le due fazioni della città, fino a minarne il fiorire economico e culturale e la saldezza di fronte alle minacce esterne. I governanti individuano pertanto come mezzo per dirimere la questione un’antica leggenda religiosa che narra della Prima Fonte, un’opera andata perduta e tuttora di ignota dislocazione. Ciascuna delle due parti di città, consultati i saggi di antiche abbazie, sceglie il proprio campione per andarne alla conquista. Il percorso, dapprima separato, è per entrambi lungo e irto di ostacoli, tra battaglie, vecchi mendicanti che indicano la via e visioni mistiche, finché le strade dei due oppositori si riuniscono ai piedi di una montagna, sulla vetta della quale essi otterranno la risposta finale. In cosa consiste la Prima Fonte, e cosa simboleggia? Saranno essi in grado di coglierne e diffonderne il significato?

INCIPIT
“C’è tanto, ancora, per le terre di Saenae?” “Due giornate di cavallo, c’è ancora, se si va di passo. Una, se si va di trotto”, rispose l’oste senza voltare lo sguardo all’indirizzo dell’avventore. Dietro il banco rovistava alla ricerca del registro, chinato sulla schiena, lamentando l’eccesso di zelo della moglie, la quale evidentemente nel rassettare gli aveva sconvolto i riferimenti del suo calcolato disordine. “Mezza, dunque, se si va di galoppo”. L’oste non rispose. Finalmente tirò fuori un librone rilegato di cuoi scuro e sudicio, posandolo pesantemente sul banco. Lo aprì alla prima pagina vuota, che era una di destra, affondò la punta di un vecchio pennino nell’inchiostro di una boccetta lasciata aperta senza cura e iniziò a segnare la data del giorno con caratteri grossi e incerti. Sulla pagina di fronte, la data ultima che figurava, insieme ai dati dell’ultimo ospite che aveva pernottato, risaliva a dieci giorni prima. “Mezza, di galoppo?”, ripeté il sopravvenuto in forma interrogativa. “Mezza”, concesse infine l’oste, alzando lo sguardo all’avventore. Intanto, voltato il volume verso di questi, gli porse senza entusiasmo il pennino dopo averlo intinto una seconda volta nella boccetta dell’inchiostro violaceo, un poco secco e grumoso. “Il vostro nome, Signore. La stanza è di sopra, la prima dalle scale.” “Si può mangiare, qui?”, chiese l’altro dopo aver vergato con mano ferma le sue generalità e la provenienza. L’oste si pulì le dita della mano destra sporche di inchiostro passandole sui calzoni larghi di fustagno scuro, e uscì da dietro al bancone senza dar segno di aver recepito la domanda. Si avvicinò alla porta della locanda, che presentava un vano chiuso da una grata a vetri spessi e ondulati, disseminati di bolle d’aria e di gocce più opache di densità difforme, evidentemente di rozza fattura tanto che il paesaggio esterno che mostravano risultava deformato, come la visione di un sogno. Guardò verso l’alto, aggrottando le sopracciglia, come aveva fatto nel momento di scrivere sul registro. Probabilmente era miope e strizzava istintivamente gli occhi per concentrare meglio il suo sguardo, essendo troppo pigro per cercare e inforcare gli occhiali. Oppure non li possedeva proprio, essendo piuttosto male in arnese, lui come tutta la sua bicocca. Il cielo era quasi buio, si era al crepuscolo e lontano all’orizzonte si mostrava ancora un pallido chiarore, di un rosso sbavato flebile e triste del sole morente. Alcune nubi, nere come la pece, si stagliavano basse grazie a quell’ultimo pallore, coi contorni sorprendentemente netti, come se fossero disegnate. “Fra poco”, rispose infine l’oste appena prima che l’altro, spazientito, ripetesse la domanda. Quindi rientrò verso il bancone, mentre l’ospite saliva le scale scomparendo nel buio del loro angusto vano. Prese tra le mani il libro tuttora aperto alla pagina appena compilata, e lesse senza interesse: “Ermete di Leffemberg, alemanno”. Quindi richiuse il registro e lo lasciò cadere alla rinfusa nel vano posteriore del banco, insieme alle altre carte. “Andate alle terre di Saenae?”, chiese il locandiere senza preamboli, sedendosi al tavolo di fronte all’avventore su una sedia mezzo traballante, senza neppure chiedere il permesso di disturbare il proprio ospite. Evidentemente quella era casa sua, ed erano gli altri a doversi adattare, per quanto potessero essere clienti. Così doveva ragionare.

BRANO SCELTO
Il Vescovo si alzò dal tavolo e col suo passo lento e malfermo si avvicinò alla finestra. Guardò la luna, che lungo la sua parabola notturna era giunta a mostrarsi, uscendo da dietro la facciata della chiesa e illuminando di traverso il fianco dell’edificio. Leo e Cecco lo seguirono, scrutando verso l’esterno di sopra la sua testa calva. Al vano della finestra, profondo almeno due braccia, fece capolino un ramarro, arrampicatosi fin lassù con le sue zampe palmate, aderenti come la colla alla pietra livida. Parve guardare i tre uomini coi suoi occhietti vitrei, sporgenti fuori dalle orbite, e ghignare dalla bocca coi dentini aguzzi come un mostro maligno. Quindi guizzò sul davanzale, agitando rapida sopra di esso la coda e muovendo a scatti il muso allungato. “Ecco”, sospirò il Vescovo abbassando lo sguardo e incontrandone gli occhi metallici, “ecco, spesso l’uomo non sa distinguersi da un rettile, i cui istinti primordiali prevedono soltanto la soddisfazione delle esigenze immediate e materiali. Il dominio per la propria sopravvivenza. E l’uomo stesso, per seguire tali istinti ben oltre quanto gli sarebbe necessario, trascura di porre attenzione alle cose del Cielo…” Poi scosse lentamente la testa, in segno di afflizione piuttosto che di biasimo, per ciò che riteneva peccato mortale dello spirito. Quindi rialzò lo sguardo alla luna; lei guardava bianca e lucente, ma aggrottata nelle sue rughe come se la sua anima fosse turbata da una preoccupazione, inconfessabile ai poveri uomini deboli, circa il loro destino infelice. Il Vescovo riprese, indicando a essa col braccio teso tremulo, e il dito scabro incurvato: “Verrà un giorno in cui l’uomo arriverà fin lassù, i figli dei nostri figli possiederanno macchine volanti, col solo pensiero si potrà svolgere ogni pesante occupazione, e tante altre cose mirabili avrà prodotto l’intelletto umano. Eppure l’uomo non avrà ancora compreso. Non mancherà molto, da che l’uomo avrà raggiunto e conquistato la luna, che l’uomo perderà la Terra, avendola distrutta da se stesso, e cercherà di fuggirne per non morire di sua stessa mano. Solo allora si accorgerà di essere posto di fronte alla sua chiamata di responsabilità, che avrà trascurato fino a quel momento in nome dell’agio e della libertà degli istinti, che è propria degli animali. Qualcuno dall’alto assisterà a questo delitto, e saprà descrivere la nostra triste storia al suo pupillo”


Romanzo NP COMPLETO


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SINOSSI
Una storia avvincente che si snoda tra le più complesse questioni della matematica ma che investe al contempo gli aspetti umani più profondi. Alla ricerca della soluzione di un celebre problema della matematica, che ha tenuto in scacco generazioni di studiosi e per il quale è in palio un ricco premio, un giovane studente si imbatte in una vecchia storia di tradimento tra due scienziati, che ha condotto l’uno al successo e alla notorietà, l’altro alla fuga da un mondo che non riconosce. Ma tale enigmatica figura, di cui si sono perse le tracce da decenni, attrae il ragazzo tanto da spingerlo a una ricerca insensata, che giungerà a compimento dopo numerose peripezie ma che lo ripagherà poi largamente, consentendogli di coronare il suo sogno scientifico ma anche aprendo ai suoi occhi una realtà nuova. Così il giovane scoprirà i valori autentici della vita e si dedicherà lui stesso, rifuggendo il meritato trionfo e abbandonando gli affetti, rinunciando alla sua passione e a un futuro agiato, al mondo dei più bisognosi e alle sue privazioni. Tenendo sempre a mente l’insegnamento del suo vecchio professore, che l’intelligenza nulla vale se priva del valore fondante dell’amore.

INCIPIT
C’era un’afa opprimente quella mattina. Si era appena ai primi di luglio, ma l’estate era ormai giunta da un pezzo, e così torrida che aveva già spossato da tempo chi, come Saverio, soffriva maledettamente il caldo.
Nell’aula poi, affollata e priva di aria condizionata, ristagnava un fastidioso odore di sudore e di alito umano, e ciò non agevolava certo nel ragionamento i ragazzi che stavano sostenendo la prova scritta dell’esame di logica matematica, che risultava a tutti tanto ostico e per l’argomento e per la particolare severità del docente. Le dicerie, che spesso si ammantano di leggenda e che sempre circolano per i corridoi e gli atri dei palazzi de “La Sapienza” – come d’altronde di qualsiasi altro istituto di studi - volevano addirittura che il professor Quaglioni, anziano ma tuttora lucidissimo luminare della materia, non leggesse neppure i compiti degli studenti al primo tentativo di passare l’esame, cassandoli immediatamente come non idonei; li valutasse, se pur con l’abituale rigorosa pignoleria, al secondo appuntamento, selezionandone tra questi all’incirca un decimo sufficienti per sostenere la prova orale; quindi, alla terza volta che lo studente si sedeva al banco in attesa trepidante del testo d’esame, cominciava a diventare ragionevole attendersi un giudizio non diremmo certo compiacente, ma quantomeno equo. Allo stesso modo succedeva per l’esame orale: al primo incontro, due domande improponibili erano sufficienti per rimandare l’esaminando alla sessione successiva; nella quale, bontà sua, Quaglioni giudicava idonea ancora una sparuta minoranza, e assai di rado con voti lusinghieri; alla terza occasione l’esame diveniva, si direbbe, accessibile.

BRANO SCELTO
Un solo individuo tra i presenti in quella immensa sala era rimasto per tutto il tempo impassibile osservatore, limitandosi solo a un leggero scrollare della testa in occasione del tremendo j’accuse di Saverio, e accennando appena un sorriso affettuoso.
Era rimasto in silenzio in fondo all’aula, un vecchio signore con bastone e barba lunga e occhiali scuri. Al polso sinistro portava un bracciale di rame piatto, incrociato a doppia voluta. Un bracciale africano.



Racconti POI DICE CHE UNO

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SINOSSI
Siete tra coloro che perdono il sonno se non si sentono in pace con la propria coscienza? O che si dannano l’anima per adempiere i loro doveri di buon cittadino e onesto contribuente?
Siete tra quelli che vorrebbero sentirsi chiedere ma tu che conosci? - invece di ma tu chi conosci? - quando si trovano a un colloquio di lavoro? Intendete davvero procedere nella vita senza bisogno dell’aiutino?
Ricevete pacche sulle spalle e sorrisi benevoli, ma poi arrivate sempre secondi? Vi ripetono spesso che siete il futuro di questa nazione, ma siete troppo giovani per meritare credito?
Non vi sentite abbastanza proattivi? Non siete del tutto confident del vostro commitment?
Forse questo libro fa per voi. Forse non fa per voi questo posto.

BRANO SCELTO - OTTO ETTI DI ROMANZO
Amareggiato e incredulo al punto da procedere barcollando lungo la strada come un ubriaco, S. rincasò a tarda sera dopo aver girovagato senza meta e senza costrutto. Con grosso sacrificio, giacché non aveva alcuna voglia di parlare sentendosi affranto e spossato anche nel fisico, accennò alla moglie di essere di ritorno da un colloquio con il professore, il quale gli aveva svelato finalmente in cosa consistesse la debolezza del suo testo.
“Ah, bene”, fece lei di rimando, indaffarata tra i fornelli, nell'aria umida e vaporosa della cucina.
“Dice che si tratta del peso, del peso materiale, capisci?”, riprese S. con il filo di voce della mortificazione, sforzandosi di parlare. “Ne servono otto etti”.
Con in mano una cucchiaia di legno, la moglie ri-mestava dentro a un pentolone scrutandovi all'in-terno per accertarsi della densità del contenuto, mentre allungava l'altra mano alla cieca in direzione di una mensola alla ricerca del sale.
"Embè, tu fagliene otto etti”, fece con perfetta di-sinvoltura, allontanando il volto paonazzo dalla pentola con un'espressione visibilmente contrariata. Riprese poi per qualche istante a lavorare, tagliando freneticamente a fettine sottili delle zucchine da versare in padella. Si sciacquò le mani, asciugandole rapidamente sul grembiule lungo i fianchi, sfregandovi a più riprese le palme e il dorso, quindi tornò ai fornelli e diede un'altra rapida rimestata nella pentola. Infine voltò la testa di traverso:
“Lo sai che non ne so niente, ma è tanto difficile farne otto etti?", si informò imponendosi lodevol-mente di interessarsi alla vicenda. Non ottenendo risposta, si soffermò qualche momento a scrutare il volto mesto del marito, quindi con gesto risoluto si diresse verso un pensile e lo aprì, afferrò la bilancia da cucina ivi custodita, ne pulì il piatto sul grembiule e vi collocò sopra il dattiloscritto dopo averlo strappato dalle mani apatico dell'inane consorte.
"Ecco, mancano settanta grammi, che sarà mai!".
"Certo che posso farlo, ma che senso ha?", sbottò finalmente S., rientrando in sé da un ennesimo mo-mento di assenza.
"E io che ne so, il bibliofilo sei tu, fosse per me te li butterei tutti", fece lei riferendosi alle montagne di libri che S. si ostinava a conservare in casa, accata-stati su scaffali e ripiani traballanti.
“Vado a letto”, si schermì lui, braccato dal mondo intero.

BRANO SCELTO - L'AIUTINO
Stillando copiose gocce di sudore, che gli colavano lungo le tempie, ma nel contempo provando brividi di freddo alle reni, Nevio li raggiunse e, allungando il braccio teso al di là del tavolo, porse loro a mano aperta le banconote appena prelevate.
“Ma no”, fece l’impiegato anziano, allontanandosi istintivamente col busto e sollevando appena le dita delle mani dal tavolo. Quindi si rivolse al suo giovane collega senza far motto. Questi si spostò sulla sedia con le rotelle puntellandosi con i talloni e raggiunse per tale singolare mezzo di locomozione una vicina cassettiera. La aprì e ne trasse una busta bianca da lettera, che consegnò per tutta risposta all’impacciato contribuente.
“Oh, scusate”, seppe solo biascicare quest’ultimo, mortificato per l’incresciosa conduzione della fac-cenda. Quindi si allontanò con la busta appena ricevuta nella mano sinistra, mentre la destra conservava ancora l’informale contributo; si ritirò con discrezione nello stanzino dalla porta socchiusa – non ebbe la prontezza di verificare la presenza di cadaveri all’interno – quindi ne uscì pochi istanti dopo a mani libere. La platea dei contribuenti in attesa lo osservava con solidarietà e rassegnazione, prefigurandosi con un groppo in gola il proprio turno al patibolo. Nevio raggiunse di nuovo la postazione degli esattori, accom-pagnandosi con un breve cenno di inchino estrasse dalla tasca interna della giacca la busta da lettera ricevuta pocanzi, divenuta nel frattempo un più corposo plico, quindi la consegnò secondo i canoni della decenza e dell’urbanità.


Romanzo BIOCCO E NEDO

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SINOSSI
Alla stregua dei suoi picareschi precursori, ecco il reietto Nedo vivere tragicomiche avventure alla ricerca di un riscatto sociale. A lui si unisce una torma di individui in cerca di fortuna e di libertà: Biocco, un bimbetto geniale chiuso nel proprio mutismo, suggerisce espedienti per attuare i criminosi piani del compare; un nobilastro decaduto, umanista e sognatore, declama e disattende la propria integrità morale; il suo compunto servo reprime di giorno le proprie pulsioni sessuali ululandole nottetempo fino all’autarchica soddisfazione; una giovane gitana, irridente alle mascoline necessità, si fa musa ispiratrice del primo e turba i sogni del secondo; un inventore prolifico e sbadato contribuisce ai disegni dei suoi sodali senza trarne mai riconoscimento.
Insieme a un nutrito seguito, tutti costoro viaggiano raminghi verso ogni impresa trascinati dall’entusiasmo, dalle ire e dalle depressioni del loro duce. Eppure ogni avventura fallisce miseramente per l’irruenza di questi. Finché all’ennesima frustrazione Nedo viene illuminato dalla Grazia: l’occasione di riscatto si presenta nell’edificazione di una cattedrale, trasformando la truppa in un’impresa di architetti.

INCIPIT
Nedo di Pontremoli, facile all’ira, un giorno fece strage del fattore presso il quale lavorava e di tutta la sua famiglia, non esclusi gli animali da cortile.
Senza motivo apparente, sgozzò dapprima vitelli e suini, custoditi in ragguardevole numero nelle stalle e nella porcilaia; quindi, accorsi alle grida e agli strepiti disperati di questi, non riservò trattamento dissimile ai loro proprietari, trucidandoli con un lungo forcone e con un’affilata roncola. In seguito, avendo esaurito le taglie superiori da macellare ma non evidentemente appagato la sua sete di sangue, si avventò sul pollame che fuggiva nel terrore per l’aia intera, senza tuttavia trovare scampo dalla furia assassina.
Infine, madido di sangue schizzato in gran copia dalle carotidi delle sue vittime, si gettò nel vascone delle bestie per mondarsi del segno inequivocabile dei crimini commessi.
Venne arrestato dalla guardia comitale, richiamata dal furioso baccano provocato in sì scellerata maniera, tanto da raggiungere le vicine contrade e i loro abitanti fino a una lega di distanza e più, e fino a lambire le porte della città.
Così, tra la folla in conseguenza convenuta, fu menato fuori dalla casa del fattore, dove nel frattempo si era ritirato per svolgere su di sé accurata toletta, vestire i di lui abiti lindi e la giubba delle feste, e riempirsi di unguenti e oli profumati e belletti della donna poc’anzi trucidata.
Non scoccò un’ora dal principio delle sue efferatezze che venne messo ai ferri alla torre tonda; quella stessa che, isolata in cima a un poggio spoglio di ogni vegetazione, arido d’acqua e avaro di calore, in una pietraia scoscesa e senza vita, era riservata ai criminali più incalliti o ai nemici più temuti.

BRANO SCELTO
Fu il conde Mendez a esporre l'idea, a cui tuttavia venne opposto il più fermo e disgustato dei rifiuti.
“Ma questa… questa è una menzogna!”, gridò infatti atterrito Nedo dopo un lungo istante di riflessione, come se non fosse certo di aver subito compreso quanto ascoltato, tanta era la gravità e l'audacia dell'irricevibile proposta, “Che Iddio vi perdoni!”
“Lo è, ma non meno di quanto lo siano la gran parte delle reliquie adorate in giro per la terra”, rispose senza scomporsi il realista Vilfredo, uomo di mondo sebbene egli stesso assai religioso, nonché artista e sognatore.
“Pazzi! Pazzi, sacrileghi bestemmiatori! Vade retro!”, Nedo allungò le mani davanti a sé come per proteggersi da una torma di demoni, tutto il corpo irrigidito nel terrore e nell'indignazione.
Tuttavia Vilfredo non retrocedette un palmo: lucidamente e con forbito discorso, prese piuttosto a dimostrare - con lodevole prova di sofismo, commenterà il lettore malizioso - che in realtà non si trattava affatto di bugia, giacché qualunque cosa, se detta per il bene, si fa’ ipso facto verità.
“Menzogna, dici. Perché giustamente tu cerchi la Verità, nevvero Nedo? Ma cosa è la verità, alla luce di Dio, se non il sommo bene? Giacché ogni male è giustificato e ammesso, se conduce a un bene di entità superiore. Come si spiegherebbero altrimenti le sofferenze dell’uomo, se non per il fatto che esse siano atte a renderlo migliore? Come le catastrofi naturali e le pene quotidiane, se non come prove per renderlo più forte, più saggio, più fraterno, più compassionevole? Quando il male genera un bene superiore, esso è non solo ammesso, ma pure incentivato dal Cielo. Quale sarebbe il senso della tua passata vita peccaminosa, se non per fare di te, redento, uno strumento di bene per tutte le genti? E dunque tu sei moralmente obbligato ad accettare quella che può apparire di primo acchito una menzogna. Giacché Nedo, dovresti saperlo bene, la Verità è dello Spirito, non della materia. Egli ha mutato l'acqua in vino, il pane in carne, non può mutare di provenienza un osso forse?” Biocco, sintetico come suo solito, gli diede supporto tramite la sua lavagnetta:
“Hai mai visto lo scheletro di un elefante o di una giraffa? E lo scheletro di San Cristoforo, chi lo ha mai visto?”
Nel più puro spirito della nuova scienza sperimentale, Merico aggiunse:
“Si possono forse addurre evidenze che l’osso davvero non sia appartenuto al santo?”
“Forse un tempo è stato un osso di elefante, ma per certo adesso è il femore di San Cris
toforo”, incalzò un altro del gruppo.
Nedo, seduto in terra, era circondato da decine di bocche vocianti, e ne subiva tutta la pressione. Su di lui incombevano quei visi accusatori, che gli rimproveravano il suo biasimevole passato, accusandolo di non volerlo riscattare per viltà e insipienza.
“Se Dio ce lo ha mandato, credi che sia stato per farlo essere osso di elefante?”, commentò pure Rampujon.
“Non fu proprio San Cristoforo a venirti a fare visita durante le tue visionarie ore di conversione? E credi che tutto ciò, tali coincidenze, siano solo frutto del caso?”, intervenne persino Erittea.
“O che appartengano piuttosto a un disegno più alto, di cui tutti noi siamo e dobbiamo essere solo strumenti, accettandone dunque le scelte senza rivendicare il diritto di compierne di nostre, macchiandoci in tal modo del peccato di vanità?”, chiosò infine il conde Vilfredo.
Di fronte a tanto erudite e doviziose argomentazioni, Nedo si sentiva stordito, come se la sua mente stesse vagando in territori inesplorati, il suo cervello fosse sballottato in un mare insicuro, dove l’acqua si confondeva col cielo, e ogni riferimento era perduto.



Romanzo VISIONI

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SINOSSI
Una esplorazione nel mondo delle Idee, dove regnano l’arte e la perfezione.Un viaggio nell’iperuranio, in un cosmo fantastico alla ricerca della Verità ultima. È questa la raccolta di racconti Incontri nell’Iperuranio, visionaria e immaginifica, onirica, sempre più lontana dall’immanenza e dall’insensatezza della realtà quotidiana.

INCIPIT
Accadde un giorno che lo scrittore Mek si ritrovò in sogno ai piedi della collina di Beclaar, sulla cui cima si stagliava contro il cielo cristallino un enorme edificio scuro, un monolite dalle forme squadrate e regolari, con pareti lisce e prive di aperture. Sul tetto svettavano guglie riccamente arabescate, con sette torrette esili e slanciate all’altezza dei vertici dell’eptagono regolare che costituiva la pianta dell’edificio.
Guidato dal silente Jarier, Mek accedette alla sommità della collina tramite un viottolo ghiaioso che si inerpicava nella folta vegetazione. Solo una volta giunti in cima Jarier ruppe il silenzio, introducendo Mek alle segrete cose dalle quali l’angusta porticina che si stava accingendo ad aprire li separava.
“Ecco, qui dentro alberga la saggezza. Giacché sei all’inizio del tuo viaggio di ricerca, una breve visita ti sarà prezioso viatico”, furono le sue oscure parole. Quindi, aperta la porta che cigolò sui vetusti cardini, lo precedette all’interno.
Questo era costituito da un’unica, vastissima sala...

BRANO SCELTO
...Ma forse, a ben vedere, il mio stupore fu dovuto non tanto all’osservazione del fenomeno il sé, quanto piuttosto al fatto che esso si svolgesse nella quinta dimensione, la dimensione inaccessibile che genera e sorregge le altre quattro.
Già perché la durezza del viaggio, l’oscurità di quegli antri profondi e freddi, la suggestione infine della volta immensa che copriva la camera presso la quale eravamo giunti; e ancora la stranezza di quella selva di steli traslucidi, di lunghezza sorprendente, che miravano in alto senza che se ne distinguesse l’estremo superiore; tutte queste novità avevano finito per distrarre la mia attenzione dal fatto cruciale, da quel balzo verso l’ignoto nel quale mio fratello Kmos mi aveva trascinato con tanta disinvoltura. E invece, proprio quello era l’istante straordinario, l’istante notevole, quello del passaggio definitivo.
Insomma solo in quel frangente, alla vista (tutto sommato per me neanche troppo sorprendente) di quanto accadeva nel fondo di quell’angusto pozzo, all’assistere all’opera tenace e instancabile dei soffiatori, ebbene solo allora mi parve di tornare a realizzare appieno dove io fossi stato condotto. Mi trovavo, Mek, tramite quel salto di Pensiero, in un mondo inaccessibile, una realtà che non c’è, il luogo che Pensiero mantiene solo per sé, dal quale si origina e si rende possibile l’intera molteplicità di Alpha-Cosmo. In quel momento, mi resi conto infine, avevo raggiunto il vero centro di Pensiero, ne avevo conosciuto l’unicità, abbandonando la Sua espressione molteplice delle quattro dimensioni note. Questo era quanto davvero contava, ero sul punto dell’inizio di tutto, ero vicino alla compenetrazione, al ritorno a Esso!”...




Romanzo ARCHEOLOGICO FUTURO

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SINOSSI
Tra alcuni secoli l’uomo sarà fuggito su Marte, dopo aver distrutto l’atmosfera terrestre e averne ricostruita una artificiale sul nuovo pianeta. Notevoli mutamenti saranno sopravvenuti, sia dal punto di vista fisiologico che culturale: l’uomo sarà parzialmente costruito con parti artificiali, il sesso sarà reso infecondo, l’apparato respiratorio modificato in vitro per adattarlo alla composizione della diversa atmosfera. La popolazione sarà uniforme e omologata, priva di memoria, di tradizioni, di affetti e di valori spirituali, giacché l’uomo avrà saputo coraggiosamente riconoscere la sua semplice natura di animale razionale. Avrà abbandonato definitivamente le eterne grandi domande dei suoi antenati terrestri e il suo obiettivo sarà dichiaratamente quello di sfruttare un pianeta fino alle sue ultime risorse, per poi spostarsi su un altro. Si insegnerà solo la scienza fisica, non esisterà più alcun tipo di espressione artistica. Il fine riconosciuto sarà senza ipocrisie il profitto, il successo e il piacere gratuito.
Periodicamente verranno inviate spedizioni segrete sulla Terra per rinvenire reperti archeologici per ricchi collezionisti. In una di queste riuscirà a trovare posto un giovane curioso, introdotto alle nozioni di base del vecchio mondo ormai dimenticato da un anziano professore, tollerato a fatica dalle autorità solo per via della sua sterminata conoscenza del vecchio pianeta. Entrambi saranno una sorta di errori di produzione dell’uomo, essendo interessati alla storia, alle emozioni, alla ricerca spirituale.
Giunta sulla Terra ritenuta ormai disabitata e invivibile, casualmente la spedizione si imbatterà in un piccolo gruppo di umani, viventi in un ristretto angolo del mondo in cui l’atmosfera si sarà miracolosamente salvaguardata. In seguito ai tanti cataclismi climatici e alle disavventure sopportate, l’uomo terrestre sarà regredito ad abitudini e conoscenze analoghe a quelle di un antico medioevo. I due gruppi si conosceranno e nascerà un confronto di costumi spesso aspro e serrato.

INCIPIT
“Detorixocol Rinogik”, si presentò emozionato l’oratore al cospetto dell’intero Comitato Direttivo del partito, “ricercatore anziano di Derive Sociali s.p.a.”
“mostrerò in breve alla rispettabile platea i risultati degli studi da voi commissionatici. Ci piace ricordare che abbiamo svolto le analisi con il supporto del K3-2S, il più moderno ragionatore quantico della classe Delta, in dotazione esclusiva alla nostra azienda e – soltanto – agli organismi militari e ai servizi segreti”, esordì senza celato vanto.
“grazie a esso, la simulazione da noi effettuata accresce la verosimiglianza dei risultati di un valore stimato tra il 4 e il 6% rispetto ai ragionatori quantici di tipo tradizionale, attestandosi pertanto al considerevole livello di 86.4%, che è decisamente superiore a quanto può garantire qualsiasi altro sistema di simulazione delle dinamiche sociali, compresi quelli dei vostri concorrenti” L’uditorio commentò con un brusio di compiacimento.

BRANO SCELTO
In seguito a ciò, quando ormai si era fatta notte fonda, Vusorjs aveva abbandonato l’alloggio nel centro della cittadina e se ne era andato tutto solo alla luce della luna verso la sua scogliera, verso la loro scogliera, aspettando che il sopraggiungere dell’alba gli suggerisse la sua definitiva determinazione. Il professore gli aveva dato facoltà di decidere fino all’ultimo momento, se avesse avuto qualche tardivo ripensamento, se la paura dell’ignoto lo avesse colto d’improvviso, se avesse ritenuto infine che sarebbe stato semplicemente più giusto partire.
Vusorjs aveva camminato fino a una certa curva della strada verso Porto, quindi si era tolto le scarpe e aveva proceduto scalzo nei prati, seguendo il percorso descrittogli da Carola nei suoi ricordi d’infanzia. Aveva sentito i lunghi fili d’erba solleticargli le caviglie con fruscii discreti, e ogni tanto un piede trafitto da un piccolo arbusto o da un minuscolo sassolino. Aveva sentito la terra sotto ai propri piedi nudi; a contatto diretto col suo corpo, aveva sentito la Terra.
Dunque Vusorjs era adesso lassù da solo, davanti al sole nascente, certo più Generoso che Fornitore, e al mare infinito che riluceva dell’alba come una distesa brulicante d’argento...





Romanzo NELLA PIETRA

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SINOSSI
Sullo sfondo della prima guerra mondiale, sul tragico fronte alpino. Sul monte Lagazuoi e nei suoi dintorni si scavano gallerie per raggiungere il nemico attraverso la montagna, facendo esplodere mine che ne distruggano le postazioni.
Tutti lentamente sembrano posseduti da questo compito, che a dispetto della sua insensatezza e inutilità diventerà lo scopo unico della loro vita. I ricordi di casa, le speranze di tornarvi, l’ambizione di un futuro diverso da quello che stanno vivendo, un ritorno alla vita normale; tutto ciò è scomparso dalle loro menti, che sono ostaggio della montagna, scavate in profondità dallo stesso morbo che sta bucando la roccia. Non è un lavoro funzionale alla guerra, perché tutti sanno in cuor loro che non risolverà nulla di quella guerra stanziale. È un lavoro funzionale a loro stessi, alle loro manie e alle loro idiosincrasie, alle loro paure e domande inconfessate, che solo dentro la galleria diventano lecite agli stessi loro occhi.
Non si tratta di una riflessione sulla grande guerra, né sull’insensatezza della guerra, di cui la letteratura è già piena, che ne descrivono la sofferenza. Bensì questo è un libro sull'uomo solo che scava dentro le viscere della terra, nella pietra, lui contro la montagna. Scava l’insensatezza della vita stessa, indaga su temi formidabili su cui la guerra, la montagna, l’isolamento spingono a riflettere, fino a condurre sull’orlo della follia, a stravedere, a confondere la realtà con l’illusione dello scavo.
I personaggi sono pazzi lucidi: chi, infervorato, scava soltanto senza parlare, scoppia in pianto adagiando il viso sulla roccia nuda e vorrebbe saltare in aria insieme a lei; un comandante pazzo e invasato pensa solo a raggiungere il punto per la mina: è la sua vita e il suo unico scopo, ne diventa la sua prigione e la sua esistenza; vuole dare la morte, che lui già possiede.
Lo stesso autore sembra a volte trascinato sull’orlo del baratro, e si accorge che la sua lucidità e la sua salute mentale sono appese a un filo. È assalito da visioni di sprazzi di luce, di universi deformati, come suggeriscono le recenti teorie fisiche di cui è uno studioso, e li confonde con le esplosioni e con le gallerie.

INCIPIT
Il giorno che esplose la prima, pareva che dovesse venire giù il mondo intero. Pareva che tutta la montagna si sarebbe tirata giù, crollando su se stessa come un castello di carte, afflosciandosi come un budino liquefatto. E i nostri corpi a franare con lei, pietre tra le pietre, ossa fredde e inanimate mescolate a milioni di metri cubi di roccia; teschi scabri, intagliati e spigolosi come la roccia che li trascinava con sé.
Pareva che la forza primordiale della natura si dovesse sprigionare in tutta la sua pienezza, in tutto il suo impeto, a partire da quel preciso istante; appena innescata da un minuscolo intervento umano, la natura pareva aver tratto lo spunto per dare mostra della sua incommensurabile potenza, per dare inizio al decadimento definitivo della materia e dei corpi, il primo atto della fine dei tempi. Non sembrava possibile che quell’enorme monolite, quell’immensa cattedrale di pietra, potesse davvero sgretolarsi, accompagnandosi con quel rombo cupo che era seguito immediatamente alla fulminea, quasi insignificante, esplosione artificiale. E pareva che quei lontani tamburi di morte che aveva preso a rullare conducessero persino un vento tiepido; non uno spostamento improvviso d’aria ma piuttosto il refolo di una notte d’estate, innaturale e imprevedibile in quella stagione e a quelle altitudini, che di colpo aveva investito la parete e la piana sottostante. E dire che erano più di sei mesi...

BRANO SCELTO
...Ma il pazzo si ostinava, aggrappandosi alla roccia, stringendosi se possibile sempre più. Lui no, non intendeva andarsene da lì. Provai a ordinare di portarlo via a forza, ma a quel punto estrasse di fretta dalla tasca un fiammifero e lo sfregò alla roccia. Andate via o salta tutto.
Brillò la luce fioca della fiammella nella galleria buia; tremolava incerta diffondendo il suo riverbero sulle rocce umide, e pareva che la nostra torcia non servisse a nulla.
Sentii il mio corpo irrigidirsi in un istante, divenire un blocco unico più solido della pietra che lo circondava, e sapevo che alle mie spalle così doveva essere anche per gli altri due; vedevo davanti ai miei i loro occhi sgranati pieni di terrore, proprio adesso, che erano a un passo dalla salvezza.
Non so se fui in grado di reagire in qualche modo, di dire qualcosa, del tipo per carità Meroni non lo fare, fintanto che quella benedetta fiammella decise di graziarci e di spegnersi da sé, nella mano ruvida e callosa che per nostra buona sorte non lasciò cadere il fiammifero fino all’ultimo. Quanto tempo impiega un fiammifero a consumarsi del tutto? Non certo le ore che mi parvero passare di quella scena tragica e immobile..




VETTE OVVERO INQUIETUDINI SUL TEMA DI DIO

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Un giorno me ne vado su da solo, anche se la montagna la conosco appena; e inoltre l’ho vista solo da sotto, che spesso è tutt’altra cosa. Isolata e silenziosa, quella valle nei giorni di giugno è ancora troppo fuori stagione per poter ospitare qualche altro camminatore che sia tanto pazzo da inoltrarsi fin lì come me all’alba appena fatta.
Ma d’altronde la montagna è di per se stessa silenziosa e riservata, non si offre affatto e non invita nessuno, se non tramite quel suo richiamo oscuro che colpisce solo chi già da lei è stato ghermito in tenera età; chi prova, presso di lei, alle proprie membra la vivacità di un risveglio, il ritorno del vigore dopo una lunga malattia; e nello spirito, la gioiosa sorpresa della quiete e della familiarità, l’inattesa risposta a un disagio indefinito.
Insomma me ne vado su da solo, con l’intento nascosto – ‘che invero già lo sapevo, solo non potevo confessarmelo – di arrivare fino in cima, non calcolando i tempi e le opportunità, come in montagna è sempre d’obbligo fare, a rischio di trovarsi in alto a giornata troppo avanzata, o col maltempo che di colpo ti intrappola. A rischio, lo dico senza retorica, della morte, se la sorte non è benevola. Parto presto e mi inoltro nel fitto degli abeti. Vado avanti spedito sul sentiero, nel silenzio nascosto della gola boscosa vivacizzata dal torrente che saltella tra le pietre, incastonato nella fenditura centrale tra i due versanti, che vi scendono con gibbosità e declivi morbidi di prati e di boschi, oppure con dirupi più aspri, di sassi e di terra franata. C’è luce indiretta dei raggi riflessi, un chiarore soffuso per di più filtrato dai rami degli alberi. Il sole deve essere già alto in pianura, ma quassù il suo disco è ancora nascosto dietro chissà quale crinale. Poi a un certo momento irrompe, e invade il cielo con striature dorate di filigrana. Insieme, il paesaggio si apre in una conca più ampia, e si iniziano a vedere lontane le pendici del ghiacciaio adagiato nella culla della valle levigata e scura. Tutto grigio come la morte, dopo che il ghiaccio ha premuto per millenni e adesso, ritiratosi più in alto col sussiego della sconfitta, indispettito dal progresso che incalza, ha lasciato sul suolo il segno silenzioso di devastazione e di deserto della vita.
Da lì sotto si vede il nastro bianco, la muraglia irregolare del fronte del ghiacciaio, piccole pareti in apparenza, ma solo perché lontane. La bocca invece dovrà mostrarsi dopo, seguendo le curve del percorso disegnato dal rio che da essa si genera, incanalato ancora nei molti angoli da girare prima di raggiungerla, per quanto possa sembrare lì a un passo, dietro la successiva gobba. Proseguo senza fermarmi, e raggiungo il bordo della morena; la risalgo lungo il fianco e lentamente si apre alla vista la distesa perlacea del ghiacciaio, segnata da fratture profonde e da scoli di sporco.
Continuo finché mi è possibile, guardando adesso la bocca dall’alto, poi devo scegliere se prendere da un lato o dall’altro di un torrione, se proseguire lungo il ghiacciaio o salire sul versante ripido innevato, con massi enormi che sporgono. A sinistra, sul ghiaccio, è troppo pericoloso, non lo conosco e lungo la parete rocciosa che lo delimita affonda per metri di spessore in una fenditura che non saprei come superare. D’accordo, vado a destra. Anche se, credo, proseguendo dall’altra parte avrei potuto risalire più comodamente sul ghiaccio, una volta raggiuntolo, compiendo un lungo cammino circolare intorno al torrione e alla crestina che lo accompagna dietro, arrivando al bivacco dal retro. Ma non si può, meglio andare a destra, arrampicando facile tra le rocce, e uscire sul ciglio del poggio che vedo a occhio nudo. Saranno duecento metri di quota, non di più.
Inizio a scalare, ma adesso comincia a fare freddo intenso e il cielo si copre. Sono un incosciente ad andare ancora avanti, se cado qui e mi rompo un ginocchio sono guai seri farmi venire a prendere; e queste nuvole che scendono a folate non mi piacciono per niente. Però ormai l’ho intravisto, il bivacco, quando ero più sotto, giù dalla base del ghiacciaio tra le fenditure della cresta, arrampicato sulla sommità di un declivio. Inoltre qui sopra deve esserci una conca nevosa, di sicuro; non è così lontana, e adesso scendere sarebbe pure più pericoloso che continuare a salire. Mi aiuto con la piccozza, le gambe mi tremano per il gelo e l’instabilità della coltre nevosa, uno strato sottile sopra il ghiaccio vivo che rende i miei passi assai incerti. La superficie dei massi infatti è vetrata di ghiaccetto, e per questo motivo ancora più insidiosa. Dovrei vestirmi subito e mettere i ramponi, ma non posso fermarmi adesso, mi serve un posto in piano. Devo raggiungere la cresta poco sopra, mi fermerò lì.
Quando finalmente arrivo mi rendo conto che ho le mani congelate, le gambe intirizzite rose dal freddo. Come abbiano fatto a lavorare in tali condizioni, Dio solo lo sa; riaffiora la mia vanità di atleta, e mi dico che senza i miei mirabili trascorsi sportivi non ce l’avrei mai fatta. Ma non è solo una questione di gambe, è la volontà che ti porta avanti in montagna, come pure nella vita, è la testa che soccorre. Avanti, avanti ancora, senza pensare. Se la fatica ti aggredisce, allora hai perso e ti fermi.
Sono sul crinale. Era come dicevo, c’è una conca nevosa e alla fine di essa, in alto, il bivacco. Ancora vanità, questa volta di esperto montanaro - c’avevo azzeccato. Mentre mi guardo intorno, stringo le mani tra le cosce e ci alito sopra alternativamente; in breve riesco a riottenere un minimo di sensibilità, allora scarico lo zaino e lo apro. Le dita sono ancora un blocco unico, a fatica riesco ad afferrare il laccio che chiude la sacca; poi lo tiro coi denti, allargo il buco con le mani e rovisto dentro: ecco i guanti, i calzoni e le maglie pesanti, la fascia di lana per la testa. In due minuti tutto si aggiusta. Ho fatto un’idiozia, lo so, ma è andata bene; d’altronde lo sapevo sin dall’inizio che si trattava di una sciocchezza, una cosa avventata, da non farsi, eppure ho voluto farla ugualmente.

Prova estetica
Adesso che sono al sicuro posso fare il punto della situazione: scruto il cielo, le nuvole corrono veloci e il vento le spazza presto, dopo che qualche fiocco di neve mi ha sferzato il viso mentre sbucavo sulla cima, sbattutimi in faccia da una folata gelida che plana continua dalla conca. Guardo in alto verso le vette, che sbuffano anch’esse come fumaioli residui di nubi. Ci sono pinnacoli che sembrano disegnati, troppo anomali e appuntiti perché si possa seriamente pensare che si tratti solo dell’opera della natura; cioè che siano sorti banalmente dal caso, senza un preciso intento estetico. Ma se così è, allora il mondo si rivela un Creato, un Creato-con-scopo, in cui il Creatore abbia voluto includere scientemente il senso del bello, e nel quale l’uomo creato sappia cogliere tale aspetto. A meno che il sentimento estetico non sia null’altro che una nostra umana prerogativa, sviluppata nel tempo da un animale evoluto immerso nel mondo, al più innescato ma non suscitato proprio da figure come quelle dei monti; ma allora, se fosse così, perché non da una discarica di rifiuti, o da un muro di cemento dovremmo essere mossi nell’animo? No, non può essere, è la natura che detta i parametri dell’estetica, non l’impressione delle immagini sulla nostra retina e la loro assunzione nel nostro cervello.
Stagliate contro il cielo, ci sono frange di guglie in successione, che formano pareti come palizzate sconnesse e irregolari, con spigoli vivi come lame che fuoriescono sbucando dai candidi crinali nevosi. Più sotto vedo il ghiacciaio finalmente dall’alto, seracchi che sembrano grattugiati, enormi agglomerati affettati e squadrati con geometria regolare, oppure gettati alla rinfusa uno sull’altro come zolle di terra smosse da un immaginario immenso aratro, colati come lingue o accavallati in frane, accatastati l’uno sull’altro; da lontano sembrano schegge di cristalli disposti a formare una superficie granulare, come una carta vetrata di grana grossa.

Via di nuovo, diretto al bivacco ormai in vista, adagiato sull’orlo di quello spalto bianco di neve fresca che pare un catino immacolato di ceramica, appena sotto la cresta sommitale. Ci arrivo in mezz’ora, adesso che cammino spedito coi ramponi. Si tratta di una vecchia costruzione di legno scuro, col tetto spiovente e due finestrine ai lati dell’ingresso pitturate di celeste, con una fascia orizzontale bianca nel mezzo; la vernice è secca e scrostata. Ha sul davanti una piccola veranda coperta dalla sporgenza del tetto, con la balaustra pure di legno scuro.
Non c’è nessuno. Forzo la porta, che era solo accostata, ma che gratta in terra sulle assi dell’impiantito. Dentro ci sono quattro brandine coi materassi bassi e logori, poi vedo alcune coperte ripiegate in bell’ordine, un fornello da campo, un flacone di benzina, un pentolino privo di manico; una scatola di minestra aperta a metà, una busta di zucchero, tre confezioni di carne in scatola. Infine, due panche addossate alle pareti laterali. Mi siedo su una di esse e slaccio gli scarponi, allentando le stringhe e aprendoli sul davanti per estrarre la linguetta.
Resto qualche momento così per riposarmi, girando lo sguardo intorno, poi mi spoglio e rimango a torso nudo. Mi asciugo in fretta – nonostante il gelo ho sudato copiosamente - quindi infilo l’unica maglia pulita rimastami, che pesco velocemente dallo zaino, in modo da avere a contatto con la pelle qualcosa di asciutto. Poi mi copro di nuovo con gli indumenti svestiti, in ordine inverso rispetto a come li avevo indossati.
Infine metto la giacca ed esco di nuovo sul ballatoio esterno, per respirare un po’ di quell’aria tesa e secca d’alta quota che tanto amo. E per ammirare il panorama circostante, con la sfilata di vette in successione sui due fianchi, disegnate sullo sfondo del cielo - blu intenso; e giù una prima fascia di nevi perenni – bianco candido; poi le rocce scure e scolate, i massi enormi e le pietraie brulle ai piedi del ghiaccio - grigio piombo. Quindi i prati – verde accecante, e i boschi – verde scuro, che giungono fino a valle, col filo del torrente spumoso che taglia un piccolo agglomerato di tetti.

Ecco, vado fuori aspettandomi di godere di tutto ciò. Invece, è allora che incontro il vecchio. Non riesco a ricordare come fosse vestito, adesso, ne conservo solo l’immagine del viso, incorniciato dal vuoto. Una sorta di sfumatura santa, le nebbie del dubbio da cui emerge, forse una testa mozzata che è puro pensiero. Ma a volte la memoria si confonde, in un continuo alternarsi di visoni diverse: così accade che il mio ricordo cambia, e adesso mi sovviene come se fosse nudo, che portasse solo un panno all’altezza della cintola, o al più che gli passasse sopra una spalla; rammento di aver osservato la pelle raggrinzita e cascante da vecchio dietro le braccia, quasi staccata dal corpo; ma coi nervi e i muscoli lunghi e affusolati in evidenza, come un Cristo intagliato nel legno in quelle forme allungate tipiche delle sculture di montagna; un po’ fiaccati per via dell’età ma tutt’ora tonici e guizzanti. Scabro e filiforme, secco come un chiodo come solo certi montanari vecchi vigorosi possono essere, ‘che tutta la loro vita è stata una salita e una discesa. Eppure, certamente, non poteva essere così svestito, ma io davvero non me ne ricordo.
Siamo affacciati al ballatoio, fuori della baracca, in piedi sulle assi di legno scuro come la pece. Tutti e due abbiamo i gomiti appoggiati sulla balaustra. Mi chiede:
«Perché tu non credi?»
Come fa a sapere che non credo? Dei miei dubbi, della mia ragione che non intende desistere, della scommessa mal posta a cui non intendo partecipare, e di tutto il resto. E pure di quel richiamo, che forse è solo un’esigenza, un’esigenza di speranza e di salvezza dal mondo che non capisco, che mi è straniero e ostile; ostile come a volte mi appaiono tutti gli altri esseri umani, le loro ombre che mi passano accanto minacciandomi, subdole finché io non mi distragga un solo istante. L’ideale. Solo l’ideale mi può salvare. Solo la perfezione di ciò che è definitivo può trarmi fuori dalle insidie del contingente; per questo, pur non sapendo coglierla, ne ho bisogno e la anelo. Ma forse il vecchio non ne sa niente, di tutto questo. Solo, sa che non credo.

L’ontologia può precedere la metafisica?
Perché, dunque, mi chiede. Non credo per ignoranza, innanzi tutto. Perché ignoro a cosa io debba credere, con precisione; e io non posso credere se non con precisione. Non è questione di poco conto, per la quale sia sufficiente un’approssimazione di verità, una verosimiglianza ragionevole, un adulto buonsenso. Pertanto sospendo il giudizio. Se dio deve essere intelligibile alla ragione umana, bisogna almeno che qualcuno lo delimiti, non può essere solo congettura vaga; che almeno sia definito con rigore, così che io possa sapere cosa devo cercare. Prima di indagare se c’è, io devo indagare su cosa è. Oppure su cosa potrebbe essere, se ci fosse. Il fatto è che già qui la cosa è assai complicata, e dispero di risolvere questo solo, propedeutico primo passo, nell’arco della mia esistenza terrena - se è lecito dire così della mia percezione di me stesso, cioè se esiste un’altra alternativa esistenza che non sia terrena.

Ho lo sguardo fisso a una vetta lontana, e adesso sono seduto sul tavolato della veranda, coi piedi penzoloni che sfiorano la neve. La vista si perde in un confine indistinto tra rocce e cielo, non sto più guardando. Le assi scricchiolano lievemente sotto il mio peso, appena mi muovo allungando le gambe per toccare il suolo.
Non c’è altro rumore, o almeno io non ne percepisco. Anche il vento è placato.
Alle alte quote tutto è distillato; il mondo si fa di cristallo, il corpo levita senza peso apparente, la mente vede chiaro come non potrebbe altrove, acquisisce una lucidità che fa quasi spavento all’uomo evoluto; quello che corre senza sosta sull’asfalto, tra due muraglie di cemento, e non ha tempo per la contemplazione e i pensieri oziosi, né per la solitudine che pone domande.

Essere supremo o musicisti senza talento?
Ripercorro a volo d’uccello la storia delle Sue definizioni, per fare chiarezza a me stesso, tanto per cominciare.
Dunque è l’Essere Supremo dalla notte dei tempi, duemilacinquecento anni or sono e anche più. Solo a pensarci, vengono i brividi che un uomo come me, due-mila-cinque-cento anni or sono doveva essere seduto a ragionare così. Facile, almeno fintanto che non si è argomentato che l’esistenza non può essere un attributo, una proprietà, ma è piuttosto un quantificatore, e pertanto non può appartenere all’Essere. Così ci si impantana, si dimostra ciò che si assume. Niente da fare.
Eppure, si ribatte, altro è l’Essere, altro l’Esserci; ma qui il terreno si fa accidentato, l’argomento spinoso, e di prove ce ne sono poche. Il metodo e la ragione si perdono troppo facilmente nelle nebbie dei sofismi, nella fragilità delle percezioni, il rigore dell’analisi sfugge; attenzione a non lasciarsi trascinare dai sogni, dalle costruzioni prive di fondamenta solide, attenzione ad affidarsi ai musicisti senza talento. L’argomento è sottile, ma anche terribilmente debole; o forse è proprio questo il punto, che tutto debba ridursi a un pensiero debole, a una metafisica diluita, a un’interpretazione senza fatti; che persino l’ontologia debba essere riconosciuta come relativa e precaria.
Ma forse, così come ammalia e trae in inganno, è il puro linguaggio che può condurre alla verità?

Prova ontologica
Allora diciamo Dio l’insieme delle perfezioni, o delle proprietà positive, qualunque esse siano. Così va già meglio, mi aggrappo a Gödel come se stessi in bilico su uno strapiombo e lui fosse l’unica presa salda; se non mi salva lui, volo giù senza rimedio. Ma attenzione, che noi misuriamo le perfezioni nell’immanenza, non ne abbiamo nozione al di fuori di ciò. Allora, bene che vada, l’Ente perfetto risulterà immanente, non trascendente. Siamo daccapo.
La prova ontologica, la più ambiziosa e la più ardita, a partire da Anselmo e Gaunilone, raffinata a ogni passo lungo i secoli dalle menti più brillanti, eppure mai definitiva; chissà che proprio per essa Gödel fosse infine impazzito, magari per il troppo pensarla. Non vorrei che capitasse anche a me un giorno, che pensando troppo, senza darmi pace, mi sentissi fuori di me, anche dal mio corpo oltre che dal mondo, e mi buttassi via come lui.

Non ho riferimenti, tutto è fatuo, tutto è transitorio. Ecco perché ho questo anelito. Ma maledizione a questa mente analitica, al rigore della ragione, che mi costringe a cercare di impattare, al più, nella partita della ricerca della trascendenza; cioè che non si possa escluderla con gli strumenti della logica, che la ragione non giunga al punto di poterla dimostrare inammissibile, ecco, anche di questo mi saprei forse accontentare.
La mole enorme dei libri che argomentano, che pretendono di concludere, che non sanno dare garanzie, che sono sempre smentiti dal successivo. Che condanna! Che condanna senza fine! E dire che poi, nei giorni che si susseguono, nella sveglia della mattina, nel sole che splende, nel quotidiano ripetersi delle umane attività al fine del proprio sostentamento, cosa cambierebbe infine? È un gioco sul filo del rasoio, la ricerca. È un’ansia che toglie il sonno. C’è. Non c’è. Adesso uno spiraglio. La verità è un barlume. Bisogna accettare il suo nascondersi. Ma io non posso. Devo tenermi il mio rovello. Non quello della fede nel dubbio, ma quello della non fede nel dubbio. Dovrei lasciarmi andare? Così da lasciare spazio all’illusione di farsi strada? Che via è mai questa? Che lealtà nei confronti dell’uomo, della coscienza, dello spirito di conoscenza? La resa. No, questo non posso farlo. Capisco il vostro consiglio, ma non posso tradire l’uomo.
Se sia stato un atto di amore, questo mondo, un dono, oppure un atto di fiducia verso l’uomo; o ancora che so, l’astrazione della geometria che si mostra, e in questo consista davvero l’unico possibile ente superiore, non so. Davvero non so. Certo dovrei studiare di più, dovrei studiarla meglio questa questione, fino a impazzire; già sapendo che non addiverrei a nulla, che solo una licenza di possibilità, al più, potrei ricavarne.
Ma forse è per questo motivo che mi trovo quassù adesso: per cercare, se possibile, di raggiungere il cielo tramite le vette; chissà che le stelle, il cosmo, la sorpresa continua di una terra galleggiante nel vuoto; chissà che la vicinanza fisica me lo faccia cogliere, anziché l’enorme macina dei neuroni sempre in movimento, sempre in bilico.

Prova cosmologica o Fisicalismo?
Giacché è proprio alla bellezza del cosmo che molti si appellano, sulla sorpresa del suo ordine che i dotti edificano le loro prove, sia pure raffinate con gli strumenti moderni della logica. Possibile che il mondo, l’universo, si sia concepito da sé? O che persista in eterno, che pulsi da sempre senza un afflato vitale? Che la materia sia origine di se stessa? E che lo spazio e il tempo si possano contrarre fintanto da non esistere affatto in un remoto passato, e forse anche in un remoto futuro? O viceversa, che si auto-ri-generino? Che ogni spiegazione sia inclusa nell’immanenza, ossia che la ragione della materia sia esclusivamente nella materia stessa, come neppure per l’algebra può essere?
Ci sono uomini di scienza che credono. I più notevoli, come possono fraintendere anche loro? Devo essere io che non intendo, che non capisco il senso del divino. Ma per ciascuno di questi, altrettanti detrattori mi scuotono, e dicono che sarà solo questione di tempo; che prima o poi spazzeremo via pure le coscienze più tenaci, le illusioni più ingannevoli, e tutto apparirà maledettamente materia, tutto si mostrerà un problema di energie, di connessioni elettriche. Nient’altro sarà il pensiero. Può essere così? Infine, che ci stiamo scervellando invano? E che lo scervellarsi su dio, pure quello nasce da una sorgente di energia? Dio stesso è energia, che si sviluppa nella mente-energia, dell’uomo-energia? Dentro un universo-energia? Anzi, uno dei tanti, universi-energia?
Eppure anche la scienza e la ragione contrastano a volte con il ragionevole, smentiscono il verosimile, sovvertono l’evidenza immediata: non paiono forse incredibili prima facie le teorie della relatività e della meccanica quantistica? Così come la dualità onda particella scardina i nostri criteri usuali di ragionare, non potrebbe essere altrettanto per la teologia? Troppe volte la scienza ci ha mostrato vie giudicate in prima istanza impercorribili, vie che la ragionevolezza scarterebbe ma che la ragione messa alle strette è costretta ad accettare.
D’accordo, la scienza adduce prove, evidenze empiriche, anche se si preoccupa solo di descrivere, non indaga oltre sul perché. Ma insomma l’improbabile, l’inaspettato non può venire in soccorso anche nel campo di ciò che è al di fuori della fisica? C’è davvero tanto divario di ardire tra il credere a un Ordinatore intelligente, piuttosto che riscontrare prudentemente, assumendola come puro accidente, la fortunata combinazione di leggi, parametri e costanti universali?

Prova teleologica o nessun senso?
Un ammasso di molecole che si organizza fino a diventare cosciente, fino a commuoversi per un paesaggio di montagna, altro ammasso di molecole? È forse questo il progetto divino? Condurre la materia allo spirito? Ma a quale scopo? Deve esserci un fine, deve esserci un senso.
L’attribuzione del senso, questo il vero punto nodale. Tanto più che solo una vita che possieda un senso può possedere una morale. Se la si sa trovare laica, come molti affermano di poter fare – ma non saranno mai cogenti i loro argomenti, al vaglio di una logica rigorosa - e dunque si può individuare un senso laico e immanente, ben venga. Altrimenti, allora il senso deve essere in qualche oscuro modo legato alla trascendenza, e allora ecco che rientra in ballo a pieno titolo la religione, con tutto ciò che essa porta con sé. Se invece un senso non c’è, o io non so riconoscerlo nella mia esistenza, allora i miei principi morali non sono altro che del costume, delle convenzioni sociali, della sopravvivenza immanente; della paura e della codardia, in ultima analisi. Ma ancora oltre: se di senso non ve ne è alcuno, perché ricercare persino la propria sussistenza? Solo un pazzo può vivere e anelare una vita priva di senso, più logico sarebbe lasciarsi deperire, morire di inedia; lo stesso suicidio sarebbe inadeguato, in quanto atto di affermazione e scelta consapevole.

Prova morale o libero arbitrio illusorio?
A cosa si riducono infine i miei valori di lealtà e di dignità dell’uomo, che vado declamando con tanta enfasi? Se siamo solo materia, coincidenza di energie, che autenticità può avere il sentirsi autonomi? Cosa dovrei fare della mia vita, se essa è tutta riconducibile a fenomeni spiegabili? A cosa si ridurrebbe la mia unicità, se non a nulla? Scegliere il bene o il male non avrebbe senso, ma così pure non lo avrebbero l’agio, le passioni, i trasporti emotivi, le pulsioni ancestrali che si esplicano negli istinti animaleschi. L’uomo-energia, evidentemente di livello superiore all’animale-energia tanto da saper riconoscere la sua mera appartenenza al mondo-energia, dovrebbe comprendere dunque che nulla in lui può soddisfare alcunché: di nuovo, non dovrebbe operare, insomma, né tantomeno seguire i propri istinti.
È stato il caso che ci ha voluti così? Vale a dire, a quel livello energetico della consapevolezza che ci lascia discernere di essere mera energia, ci consente di osservare la nostra dissolvenza in un fluttuare indistinto di energia? Ma proprio per questo, per il fatto di esserne parziale componente, priva di distinzione univoca, di ontologia in sé, non abilitata a operare scelte e ragionamenti? Priva di anima? È questo che si intende, per anima? Rispondete, voi, sapienti illuminati, questo devo intendere per la mia anima? Se così, allora è vero, tutto fila solo se c’è un senso, ed esso può porsi soltanto nel trascendente. Delle due una: o siamo null’altro che energia e materia, e allora il nostro libero arbitrio è illusorio, oppure esiste l’anima.

Il tragitto del sole ha superato il proprio culmine, il suo disco mi è di fronte e si espande su tutto, tutto fagocitando, tutto rendendo evanescente, tutto annullando; anche il vecchio è scomparso, e io sono solo, sospeso su due fragili assi di legno in un mare infinito di candore indistinto. Vedo lontano. Mi sembra di vedere lontano fino ai confini del mondo, superando miriadi di vette innevate, contornate come isole da spume e ricci di nuvole, attraverso la filigrana dorata della luce.

Deus absconditus
Dicono che solo per metafora, per similitudine, io ti possa cogliere, solo per associazione di idee, attraverso il paragone di cose a noi note. Allora, mi chiedo, chi per primo ha avuto tale percezione superiore, da poter poi istruire i suoi più limitati compagni? Perché hai scelto una via diversa dalla ragione per rivelarti a noi? Fornendoci poi invece proprio questa come via maestra per la nostra conoscenza. Tu ce l’hai fornita, non altri. A che scopo, tale incoerenza? Per farci vivere nel precario del dubbio? Quale genio malizioso e maligno avrebbe potuto architettare qualcosa di più perfido?
Ditemelo voi, credenti! Voi, attentatori della mia salute mentale, della mia spensieratezza e della mia serenità, del mio equilibrio psichico. Voi, provocatori e causa della follia di chi non sa andare oltre la ragione, quella che ha ricevuto senza averla richiesta, e che adesso è diventata persino la sua colpa e il suo limite. Ditemelo voi, sapienti, voi dotti che sapete scovarlo nelle pieghe della logica, negli anditi lasciati vuoti dalle grinze della materia cerebrale. Che sapete districarvi con perizia nelle coerenze sottili della prova cosmologica, di tutte le sue sofisticate elaborazioni. Ditemelo voi che lo sapete cogliere nella meraviglia e nello stupore del Creato.
Sei il bagliore, la luce accecante di questa bianca distesa di ghiaccio che riverbera il sole, ‘che qualcuno si fece cieco pur di vederti? Sei l’infinito in cui tutto si specchia, da cui l’uomo trae la sua essenza ultima e la sua arte? Oppure, al contrario, sei la più bella opera letteraria ideata dall’uomo, come malignano tuoi detrattori emeriti? Ne sei sua immagine e somiglianza?
Sei la perfezione di questo fiocco di neve? La sua geometria, armonia e simmetria di forma? Sei l’Essere geometrico, oppure quello che possiede tutte le perfezioni? Eppure sfuggi e ti annulli in un istante, come questo fiocco che si liquefa sul mio guanto. Così tu ti riveli e ti nascondi di continuo? E perché lo fai, per renderci liberi di crederti o meno? A che scopo, quale ne è il vantaggio?
Quale il vantaggio che tu da entità astratta, metafisica, ti sia fatto uomo – se tu sei, non devi essere troppo superiore per degradarti a tal punto?

Rivelazione, cioè Dio è Amore?
Già, perché tutto quanto sopra è ancora nulla: nulla al confronto con un dio che si fa uomo e scende sulla terra tra noi uomini, fatti di materia, come sono di materia i sassi. O forse no, non solo di materia, c’è pure l’anima che vola via. Vola in cielo al dio di cui sopra, inafferrabile, ineffabile come lui. Ma anche questo, è possibile oltre la suggestione della mente evoluta? La rivelazione, dio fatto uomo. Ecco la cosa che non potrò mai cogliere, che non sarò mai in grado di accogliere. Passi per un dio astratto, passi per un’intelligenza suprema o per un ideale, passi per un motore immobile; mi sta bene il vostro demiurgo, oppure mi sta bene il suo estrinsecarsi nella natura - anche se tutto questo sarebbe un dio che crea senza scopo, per proprio diletto, ancora una volta senza senso, o senza che l’uomo sappia rintracciarne uno.
Ma non posso capire che Cristo fosse dio, capite? Come posso crederlo? Cosa si intende che dio si è fatto carne in Cristo, come va inteso? È una metafora? Vi è sufficiente, se dico così? Allora, cerchiamo di stabilire i termini con esattezza, innanzi tutto. Egli è figlio di dio come noi, esattamente allo stesso modo? Ne è solo il prediletto, come dicono le scritture? Ma allora non è disceso dal cielo, sua madre non poteva essere giglio. Dunque no, non è come noi. Allora, di nuovo non ci siamo.
Cos’è dio, ragione che scientemente si materializza? Perché? Per amore? Non posso credere che dio, se è ragione, possa essere talmente amore da farsi come noi; se è ragione, deve essere troppo superiore, può essere solo un concetto elevato, non può calarsi nelle meschinità dell’immanenza. Eppure, solo in un’ottica di un dio che interviene, che invita e che chiede, che dona la vita per instaurare una relazione d’amore, Egli acquisterebbe un senso ai nostri occhi. D’accordo, se in tutto questo mondo c’è un senso, allora dio vuole qualcosa da noi; ma ciò comunque non basta perché si sia fatto Egli stesso uomo tra noi.
E poi, forse che Cristo ha convinto di più gli uomini che non Budda o Maometto? Forse che li ha resi migliori e più buoni? Dovrebbe esserci uno scarto evidente negli effetti, che invece non c’è. Solo per colpa degli uomini? Ma perché, forse non sapeva che sarebbe andata a finire così? Cioè che la sua discesa in terra sarebbe stata vana?

Esistenzialismo, nichilismo
Cristo mi sarà sempre impossibile, dio impenetrabile e oscuro, se non saprò attribuire un senso alla mia esistenza. E io, anche questo primo passo, non so proprio da dove cominciarlo. Se anche ciò costituisce solo un’illusione, un anelito della nostra insicurezza elevato al rango di necessità; per disperazione, per paura del vuoto e del non senso. Se davvero, come a volte, come sempre più spesso mi pare che sia, tutto ciò non avesse senso? Se davvero fossimo gettati nell’esistenza senza un filo di Arianna da risalire, senza un motivo da ricercare? Ecco un’altra angoscia, l’angoscia primordiale, sopportabile solo da Titani. Eccoci tutti Sisifo senza speranza.
Decostruire dunque? Ogni morale, ogni legge del pensiero, giacché tutto è instabile? Può sopravvivere l’uomo, nudo di fronte al mistero del mondo?

Il disco del sole ormai si appoggia sull’imbocco della valle; si colora di fuoco, e di fuoco colora il cielo in una raggera che sfuma nel rosa, nell’arancio, e che quindi si fonde nella gamma dell’azzurro e del blu intenso. I contorni delle vette sul versante rivolto verso di me sono già affondati nel nero della notte . L’aria si fa di cristallo, tutto è terso e nitido, ma ancora una patina riluce su tutto, persino sulle ombre lunghe e nette. Tutto è definito. Tutto è pervaso di una luce calda che brilla e rischiara, nonostante il freddo intenso e il teatro delle cime scure di fronte ai miei occhi.
Se guardo e smetto di pensare, allora mi rassereno. Pace. Pace in questa testa assorbita dai vortici del dubbio. Adesso basta, per pietà, voglio godermi questa meraviglia. Così bella che non ti sai spiegare come possa essere. Mi condurrebbe a pensare che… ma basta, basta ancora, per pietà, un poco di requie.


L'IMPOSTORE

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Rimossi i ponteggi, il candore degli intonaci risplendeva al sole settembrino della mattina, mentre il fronte del palazzo comunale si mostrava al popolo, che gremiva l’ampia piazza antistante, dopo più di un anno di occultamento a causa dei lavori di restauro.
Infine si era deciso, non senza diverbi e contestazioni, che quelle bianche pareti lisce appena rinnovate sarebbero state suddivise in sei quadranti, tre per il piano inferiore e tre per il superiore, riservandole ai pittori più celebrati della regione. Arnoldo di Bartolo, figlio prediletto della stessa città, avrebbe affrescato il quadrante in basso a destra, quello tagliato in diagonale dallo scalone esterno e perciò meno gradito, e quello centrale superiore del loggione, ossia il più prestigioso. Orso di Bobaccia, sostenuto dal Consiglio dei Garanti, si sarebbe occupato del quadrate basso di sinistra e di quello in alto dalla parte opposta; mentre Sano de Belardi, che era stimato in massimo grado dalle potenti corporazioni dei lanaioli e dei setaioli, nonché dall’emerito ordine degli spedalieri, avrebbe riempito le due rimanenti, tra cui la centrale inferiore, in larga parte ridotta dal vano del portone principale. Ragione per cui il fianco più in vista, quello collocato verso il centro della piazza, spettava a lui, mentre di Bartolo e Bobaccia si sarebbero divisi l’altro lato del palazzo e il suo retro. Parte di quest’ultimo era interrotto da una vetusta appendice trasversale, adibita da tempo a prigione e perciò trascurata dall’appena compiuto restauro, fatta salva una rapida schizzata di calce applicatagli in fretta e furia la sera prima della chiusura dei lavori per motivi di uniformità.
Già da tempo si discettava, tra le varie fazioni della popolazione, circa le singole qualità dei prescelti, argomentando su chi tra i tre campioni avrebbe saputo rendere miglior servigio e massimo onore alla città attraverso la propria opera; se l’uno in virtù dell’impareggiabile profondità degli sguardi e rassomiglianza dei volti che sapeva conferire ai suoi soggetti, l’altro fine realizzatore di paesaggi e di scene di caccia e di battaglia, o il terzo abile al sommo grado nelle rappresentazioni della mitologia. Dal canto loro gli artisti, con le rispettive squadre dei ragazzi tenuti a bottega, già erano intenti a preparare i cartoni e gli schizzi per l’inizio dei lavori di decorazione, previsto per l’indomani, ‘che anche la più presta ultimazione ne avrebbe accresciuto il prestigio.
Fu sera e fu mattina.

“Un dipinto! C’è un dipinto alle carceri vecchie!”, accorse al centro della piazza Uno, un orfano senza patria e senza dimora giunto in città mesi addietro, così genericamente nomato dalla popolazione che lo aveva di malavoglia accettato nel suo seno.
“È meraviglioso!”
Sulle anguste mura della prigione, addossata alla facciata posteriore del palazzo comunale, in una sola notte uno sconosciuto aveva prodotto un affresco bellissimo, firmandosi con le sole lettere TS.
In molti andarono, sospettosi e increduli, a verificare, e bastò loro gettare uno sguardo per avere conferma di quanto riportato da Uno, cioè che le pareti della prigione non erano più bianche come le avevano lasciate la sera addietro.
Uno sparuto gruppetto si soffermò anche a osservare l’opera, che in effetti testimoniava di una maestria non comune, mentre tra tutti gli altri andava già fiorendo una ridda di congetture le più fantasiose circa la questione appena sorta, ovvero chi ne fosse mai lo sconosciuto autore.
Andava comunque detto che non era stato un bel fare da parte sua, chiunque egli fosse, di insinuarsi in tal modo subdolo e irriverente negli equilibri eterei dell’arte; e che quella ribalderia, si fosse trattato pure di Duccio in persona o della sua reincarnazione, al cospetto di cultori delle arti figurative quali essi erano, andava in qualche modo punita e repressa.
Chi era dunque il colpevole? Chi vilmente si nascondeva dietro quelle inespressive iniziali TS? La città intera si ritrovò indignata e infastidita a causa di tale incidente, distratta dalle sue più elevate occupazioni, vale a dire seguire quotidianamente i lavori dei tre rinomati maestri, che nel frattempo procedevano con grande dispiego di energie e di risorse nella loro possente opera.
A nulla valsero le rassicurazioni di quei pochi che avevano studiato il dipinto con attenzione, definendolo di pregevolissima fattura, giacché lo sconosciuto, il reo, l’impostore, non poteva meritare più che una fredda commiserazione, né gli sarebbe mai stata concessa soddisfazione: se cercava la gloria, non era presso di loro che l’avrebbe ottenuta.
Si commentò e si determinò che, nella città della somma arte, non sarebbe stato tollerato un simile affronto, e che dunque il colpevole s’aveva da trovare e condannare immantinente.
Ogni indizio conduceva, a ben vedere, al più riprovevole e abbietto tra gli individui, colui che sguaiatamente e senza decoro aveva gridato al miracolo e alla visione celestiale: Uno dunque, Uno stesso era l’infido, la serpe immonda.
Dapprima si tentò di farlo confessare pubblicamente sua sponte, quindi qualcuno seguì la via della rivelazione riservata; ma, a nulla giungendo coi modi urbani, ci si vide costretti a sottoporre il reietto al giudizio del Priore, al cospetto del quale venne d’imperio condotto presso la sala delle udienze del palazzo comunale.
Illustratagli l’incresciosa questione, della quale egli aveva pur sentito dire ma che non aveva potuto approfondire, il Priore si affacciò alla finestra della sala che dava sul retro e guardò in direzione della prigione, strizzando gli occhi nello sforzo di mettere a fuoco la vista; tuttavia la distanza non gli consentiva di discernere che vaghe macchie di colore e dunque pose agli astanti la domanda più ovvia.
Alla quale nessuno dei presenti, ahimè, seppe dare risposta.




SIGNORE, ABBI PIETA’ DI ME!

(Ispirato all’omonimo racconto di Leo Perutz)

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Ero un esperto di crittografia. Il massimo esperto, forse, in tutta la nazione, e per di più mi trovavo in quella fase della vita nella quale, non più giovane né tuttavia tanto avanti con l’età da non potersi più dire tale, l’esperienza nella professione e le abilità intellettive si combinano al massimo grado.
Non mi occupavo di politica. Non me ne ero mai occupato, l’avevo sempre considerata un’attività noiosa, banale, da cui non si potesse trarre alcuno stimolo né alcuna conoscenza elevata; la giudicavo quasi insulsa persino, ma non per via della corruzione e della malizia che essa portava con sé sin dall’inizio dei tempi, dei compromessi, delle bassezze che i suoi esponenti commettevano, ma proprio perché si occupava di temi e di problemi immediati, non rarefatti ed elitari riservati ai cervelli più nobili. Ero votato anima e corpo alla matematica, e a questa e ai suoi campi di applicazione, tra i quali quello della crittografia era un filone recente e fecondo, dedicavo i miei sforzi. Mi sono sempre chiesto, lungo l’intero corso della mia vita, ma senza mai trovare una risposta soddisfacente, per quale motivo non provassi alcuna attrattiva per le questioni sociali; forse perché in fondo trovavo noioso e insensato l’essere umano e la sua socialità, gretto e inutile se privo di una spinta, di un’idea e di un’ambizione alla trascendenza e alla perfezione; la sua quotidianità mi era avulsa, le sue esigenze di sussistenza non mi riguardavano, giacché io sapevo vivere di così poco dei bei materiali che quel mediocre posto di lavoro di ricerca presso l’università e quella misera rendita pervenutami da mio padre mi erano più che sufficienti; forse perché le angherie della malasorte e della povertà non mi toccavano direttamente.
Eppure ero divenuto un dissidente, e per tale motivo tenuto sotto osservazione e in seguito rinchiuso persino in prigione con un’accusa risibile, che se ne avessi avuto voglia non avrei fatto fatica a controbattere. Ma non, lo ripeto, perché in qualche modo contestassi apertamente il potere o con esso fossi in disputa per questioni di principio, quanto più semplicemente perché non tolleravo l’autorità, e questo dal regime non poteva essere concesso; non capivano che la mia indifferenza non era affatto indignazione, astio nei loro confronti, ma bensì insofferenza per qualsiasi rito o convenzione, adeguamento o condivisione sociale, che mi fosse imposta da loro o dalla più aperta delle democrazie poco importava. Pertanto avevo rifiutato sdegnosamente di iscrivermi al partito – partito unico, s’intende, dal momento dell’insediamento della dittatura quattro anni addietro – e ciò era stato sufficiente perché le autorità mi giudicassero individuo pericoloso e inaffidabile, tanto da meritare la guardina.
Tutto sommato a me non interessava neppure tanto di passare le mie giornate tra quattro mura luride, giacché la mia abituale maldisposizione verso i rapporti sociali, verso le questioni e le lotte di classe della rivoluzione proletaria, presto distortasi e trasformatasi in dittatura bieca, la mia indolenza cosmica aveva da qualche tempo esteso la sua influenza anche ad altri campi che in precedenza giudicavo meritevoli della mia attenzione; quella sorta di mondo di sogno, quella realtà metafisica di cristallo che mi ero costruito intorno alle cose della scienza e della matematica, quell’ambizione all’assoluto tramite l’utilizzo dell’intelletto al massimo grado, tanto da trascinarmi fuori delle vicende quotidiane, avevano anch’esse perso di interesse da quando Lina mi aveva detto di no, definitivamente di no, che lei con un tipo come me, senza passioni e senza ambizioni, non ci voleva stare. Anche se in precedenza mi diceva sempre “voglio essere la tua donna”, quando ce ne stavamo soli nell’universo della nostra stanza, e davvero nulla ci scalfiva o ci toccava, e io mi raffiguravo quella situazione come anch’essa una condizione ideale, in qualche modo eterna e non necessitante di sforzi o di impegno quotidiano per coltivarla e conservarla; semplicemente data per sempre, per sempre immutabile e certa.
Ecco, questa sua decisione, questo colpo ferale mi era giunto proprio pochi mesi prima della mia cattura, quando la mia accidia, oltre a farmi perdere lei – o di qua o di là, ma anche semplicemente un consenso apparente, tutto le sarebbe andato bene, fuorché l’abulia – mi aveva già messo in cattiva luce con le autorità; giusto il tempo di venir espulso dall’università per via della mia ostinazione a non piegarmi al ricatto dell’iscrizione al partito, e quindi di vedermi confiscati gran parte dei miei miseri averi; così, prima che il vitto mi venisse elargito dalla magnanimità del popolo, ospite delle sue galere, di colpo da un giorno all’altro mi si presentò il problema a cui non avevo mai dato peso, dal quale mi sentivo sollevato ed estraneo: quello di doversi trovare di che vivere. Dovetti adattarmi a sbarcare il lunario, e per un riservato borghese impacciato e un po’ sognatore qual ero, ciò costituiva ancor più una terribile prova. Ma forse paradossalmente il dolore della perdita di Lina leniva lo sgomento di trovarmi coinvolto in quella inattesa vicenda, gettandomi in una sorta di dormiveglia, quasi narcotizzato da quello stesso dolore; così non mi pesava troppo, almeno a mia memoria, di dover girare tutto il giorno per le strade, col vecchio cappotto logoro e un paio di guanti di lana tagliati alle dita, vendendo accendini e caramelle, sigarette scadenti e ciambelle fritte puzzolenti a tanti disgraziati senza un soldo in tasca; molti di loro probabilmente, fino a poco tempo addietro, agiati piccoli borghesi travolti come me dall’onda della libertà del popolo.
Non mi preoccupavo del mio futuro, non mi importava affatto di risalire la china – sarebbe stato sufficiente vergare due righe finalmente accondiscendenti indirizzandole al mio vecchio professore e tutto si sarebbe risolto in un batter d’occhio, avrei potuto riavere il posto all’università e i miei beni privati - non provavo vergogna, non sapevo più cosa fosse la dignità, o quella che quantomeno fino a pochi giorni addietro ritenevo che essa fosse.
Solo, ogni donna che mi passava accanto, ogni chioma chiara che sbucava fuori da un copricapo di pelliccia, ogni siluette chiusa in un lungo cappotto stretto alla vita, ogni rumore di tacco di passo femminile mi provocava un sobbalzo interiore, “eccola, è lei”, e ogni volta vivevo l’angoscia di voltarmi presto a verificare, o attendevo trepidante che lei si girasse verso di me, per poterla riconoscere; ma allo stesso tempo provavo anche il terrore inconsulto che potesse davvero essere lei. “Voglio essere la tua donna”, mi diceva sempre in passato.
Per completare l’opera del mio disfacimento e dell’eclissarsi del mio mondo, un giorno mi imbattei in un conoscente comune, e da questi venni a sapere che Lina se ne era andata lontano a ricostriursi una nuova vita e che non voleva più saperne di me. Avevo l’indirizzo della vecchia zia dalla quale era andata a stare, in una cittadina di una regione marginale del vecchio impero, e le avevo scritto una serie di lettere strazianti, senza mai ottenere risposta; fintanto che non avevo saputo, dallo stesso conoscente comune, che si era subito sposata con un possidente del posto. Questa ulteriore notizia mi aveva lasciato definitivamente tramontare ogni passione, ogni pur vaga speranza di un’ipotetica rinascita, in definitiva la stessa voglia di vivere. Lina mi diceva sempre “voglio essere la tua donna”, eppure adesso era persa per sempre, donatasi addirittura a un altro uomo, a cui non potevo credere che lei dicesse ”voglio essere la tua donna”.
Fu così che in poco più di otto mesi persi il mio amore, i miei beni materiali e il mio rispettabile ruolo nella società, che a dispetto delle vicende recenti e degli intenti che le avevano generate aveva mantenuto le sue convenzioni e le sue riverenze, forse persino accentuandole. Avevo trascorso tutti i mesi freddi lungo le strade della città, rientrando la sera nella mia casa gelata, di cui conservavo una sola stanza disponibile, dovendo condividere il resto con una decina di sconosciuti assegnatimi dal partito come coinquilini. Cenando con rape e tozzi di pane, raramente con un bicchiere di latte, oppure con qualche ciambella rimasta invenduta, indurita e secca per il rigore del clima a cui era stata esposta per l’intera giornata, divenuta quasi immangiabile.
Per questo motivo la prigione, quando giunse al termine di quel periodo per via di un rigurgito di stizza da parte del regime contro coloro che avevano rifiutato di assoggettarvisi, non voglio dire che fu benedetta ma certo non la soffrii più di tanto.
Trascorsi più di un anno in una cella non meno ospitale della triste stanza del mio appartamento, quantomeno con un vitto garantito e senza avere la necessità di martoriarmi i piedi per dieci, dodici ore al giorno, calcando le strade della città, dalle vie del centro pavimentate e lustre, ai vicoli lerci e ai viottoli fangosi della periferia più misera.
Condivisi la cella con tre individui distinti, che si succedettero a intervalli di alcuni mesi, tutti ombrosi e restii alla parola: del resto, forse ero io a non ispirare loro alcuna voglia di condivisione o di un approfondimento della conoscenza. L’ultimo degli ospiti, un tipo smilzo dal viso scuro e i lineamenti spigolosi, con sottili baffetti, mi metteva soggezione, autentico panico persino, quando mi studiava fissandomi di sottecchi – me ne accorgevo sentendomi addosso il suo sguardo, sentendolo attraversare lo spazio fra le due brande su cui eravamo semidistesi, poste sui lati opposti della cella.
Dopo un anno abbondante che ero rinchiuso lì dentro, provando con un masochistico piacere la sensazione dell’intorpidirsi delle membra e ancor più lo spegnersi del cervello, una mattina sentii battere alle sbarre della cella il mio aguzzino e chiamare sguaiatamente il mio nome; mi disse di sbrigarmi, che non so bene quale sommo direttore, quale generale, doveva parlarmi.
“Sei nato con la camicia, amico”, mi disse con livore non appena fui fuori dalla cella, picchiandomi violentemente dalle spalle sulle ginocchia con il manganello; un colpo secco che mi fece piegare le gambe e mi tolse il respiro, mi provocò lacrime di rabbia e mi fece uscire sangue dalle labbra morse strette coi denti, pur di non proferire neppure un mugolio di dolore.
Capii poco dopo cosa intendesse, sebbene la questione non si presentava così facile come lui la credeva – ma forse quell’animale non sapeva nulla di preciso, aveva solo capito che se un tale pezzo grosso si era preso la briga di venire in quel letamaio per me, me ne sarebbe potuto venire qualcosa di buono. Fui preso in consegna da un insignificante servo del partito, che mi introdusse presentandomi in una stanza all’ultimo piano dell’edificio. Mi trovai di fronte a un alto funzionario, giunto dal palazzo del governo appositamente per me.
“Servignani”, mi disse questi quando fui al suo cospetto, in piedi davanti a una lunga scrivania, “leggo qui che sei un genio della crittografia”.
Non era una domanda, era un’affermazione, e non mi era dato di rispondere. Dunque rimasi in silenzio, facendo attenzione a non tradire col volto alcun moto di assenso o di diniego, né tantomeno con il corpo.
“Lo vedremo, se è davvero così, lo vedremo presto. Sei fortunato, amico. Fosse per me ti spezzerei almeno le gambe, ‘che tanto non è quello che ci serve. Né serve a te per salvare la ghirba, se potrai”.
Il fatto era che avevano in mano un dispaccio importante – in codice crittografato, ovviamente – di una spia che lavorava per la reazione, appoggiata dai governi democratici delle nazioni confinanti. Il tizio non poteva più parlare, freddato con una pistolettata alla tempia da un idiota esecutore del partito, che per eccesso di zelo aveva pensato di fare il bene del popolo con quella esecuzione sommaria. Era certo uno che avrebbe fatto carriera. La macchina del regime doveva assolutamente sapere cosa contenesse quel messaggio, per porre in atto contromosse adeguate.
“Se collabori, ti tiri fuori subito da quella cella melmosa. Avrai un tuo ufficio da funzionario dei servizi segreti, silenzioso e solitario, come piace a te. Nessuno ti scoccerà, te ne andrai a casa la sera e non ci troverai dentro nessuno”.
Si può dire che quasi non risposi a quella offerta di salvezza, solo scuotendo la testa in segno di diniego.
Il funzionario sembrò abbandonare l’argomento, come se tutto sommato fosse una questione marginale e di poco conto, e cominciò a raccontarmi della sua vita, del suo passato da operaio, ma stranamente non privo di acume e di istruzione come potei osservare; così giustificò pure l’interesse che nutriva per le cose elevate della conoscenza, e il rispetto che tributava a persone interessanti e brillanti come me. Sembrava più interessato a vedermi all’opera per curiosità personale, nell’esercizio della mia specialità, piuttosto che per esigenze del partito.
Di quando in quando rinnovava in forme diverse la sua proposta, ma lo faceva quasi in maniera distratta, en passant lungo il discorso che seguiva con un filo logico convincente e una proprietà di linguaggio notevole; il suo monologo tornava ciclicamente a vertere sulle questioni dell’intelletto, inframmezzate alle proprie esperienze di vita recente di capo rivoluzionario, che aveva messo a morte non so quante decine di dissidenti senza battere ciglio, e al contempo conosciuto professori emeriti e docenti, esponenti di spicco e membri della vecchia élite culturale passati sotto la bandiera del popolo. Diversi di essi – me ne chiedeva conferma pur essendone chiaramente già certo – dovevo averli conosciuti, e così era infatti. Di costoro mi diceva quanto adesso si trovassero a loro agio, integrati e in piena armonia col nuovo regime del popolo, suggerendomi che io avrei potuto finalmente riallacciare i rapporti e tornare ai miei studi e alle mie passioni, agli impegni che meritavo.
Il suo sforzo era lodevole, e inoltre ben calibrato e scaltro, segno che il tipo non era affatto una mente convenzionale e insulsa ma aveva piuttosto ben presenti le arti dell’affabulazione e della propaganda, sagacemente miscelando la sua autorità con la blandizia. Tuttavia, per sua sfortuna, non disponeva di argomenti per convincermi a collaborare: chi non anela a conservarsi in vita, poco ha da sperare o da chiedere per lasciarsi persuadere. Il denaro non mi era mai interessato, neppure quando credevo ancora in un futuro e in un’esistenza possibilmente felice, figuriamoci in quel frangente; la libertà non più mi interessava invece da quando avevo saputo di aver perso definitivamente Lina, da quando la mia mente si era spenta e il mio spirito depresso; e inoltre, per puntiglio stupido piuttosto che per motivo di orgoglio autentico, io avevo tutta l’intenzione di far pagare al popolo l’aggressività becera, adesso che aveva bisogno di me, con la quale aveva violentato la mia abulia.
Dopo che ebbe finito, persa ogni speranza di convincermi dopo che gli avevo ribadito più volte il mio netto rifiuto, non so come, non so perché, di colpo mi venne in mente un’idea; non per un improvviso entusiasmo o con qualche minimo rinnovato interesse per la vita, ma evidentemente riaffiorò un pensiero che era sedimentato da tempo nel retrocranio, privo dell’energia sufficiente per venire fuori. Allora, senza che me ne rendessi neppure conto dissi:
“Va bene, ma a un patto”.
Dopo i tanti reiterati rifiuti, il funzionario ebbe ancora una volta la prontezza di non mostrare alcuna emozione o alcuna sorpresa a quel mio repentino cambiamento di rotta.
“Sentiamo”, disse aggrottando la fronte, piuttosto non prevedendo una simile impudenza, l’ardire da parte mia di porre condizioni. Non credo che fosse abituato a venire a patti, quantomeno col popolo o coi propri collaboratori. Così alzò gli occhi dalla scrivania, chinando un poco la testa per fissarmi di sopra gli occhiali per la lettura che aveva inforcati. Non voglio dire che fosse divertito, ma incuriosito in qualche modo sì. Più che interessato a convincermi, a ottenere quanto utile per la propria causa, forse voleva vedere come sarebbe andata a finire.
“Prima devo vedere una persona”.
“Linari, convochiamo l’individuo che ci indica il signore”, il funzionario si rivolse per la prima volta al suo attendente, che mi aveva condotto lì ed era rimasto in disparte tutto il tempo, col ghigno idiota dello zelante figlio del popolo.
“No, no, non può essere convocato, non verrebbe mai qui. Devo andare io. Ho bisogno di quattro giorni di tempo, dopodiché sarò a vostra disposizione”.
Il mio interlocutore si fece di ghiaccio, in quel momento mi apparve come un automa, che elabori informazioni e tragga conclusioni. Dopo, non so, di sicuro sarei tornato perché il mio assurdo senso dell’onore me lo imponeva – e chissà come, ma quello squallido criminale doveva avere una sensibilità e una conoscenza dell’animo umano non convenzionale, se lo aveva capito senza conoscermi; o forse quei farabutti avevano un dossier dettagliato su di me, sul mio profilo psicologico, forse il mio compagno di cella che tanto mi incuteva disagio era dei loro. Sarei tornato, certo, ma credo proprio che mi sarei lasciato uccidere, non avrei neppure tentato di volgere in chiaro quel messaggio.
“D’accordo, la aspetto venerdì allora, alle dieci in punto si presenti qui”.
Intanto Linari guardava con tanto d’occhi, finalmente mostrandosi in qualche modo in vita, ma talmente sconcertato da non riuscire ad articolare verbo. Infine se ne uscì, con una certa voce gracchiante e impersonale, quasi che fosse anche lui un automa:
“Direttore, vuole scherzare!”
La stanza sembrava diventata un grosso elaboratore, l’universo intero dentro il quale vagavano il mio corpo e la mia esistenza, il mio destino. E quei due uomini erano componenti elettroniche.
Il funzionario non gli rispose, neppure degnandosi di voltarsi verso di lui.

Non sapevo perché stessi andando, forse solo per chiederle “sei davvero felice con lui?”. O ancora per fornirle la miglior conferma della bontà della sua scelta, mostrandomi a lei in tutta la mia vita buttata al vento.
Non avevo che pochi spiccioli da parte e per questo dovetti fare gran parte del viaggio a piedi, mangiando quasi niente. Non era salutare andarsene in giro lungo le strade, attraverso le campagne e le brume, come un viaggiatore solitario, chiedendo un passaggio agli sconosciuti rari che si incontravano in aperta campagna, o alle periferie delle città, coi loro veicoli scalcinati e poveri, vuoti di ogni cosa giacché la rivoluzione, salvo che nelle città libere, aveva aggravato le condizioni di miseria della popolazione.
Molti di loro, ancor più timorosi di me che lo chiedevo, non si fermavano affatto fingendo di non avermi sentito; e se di contro qualcuno mi dedicava attenzione, allora ero io a tremare di paura, perché nessuno poteva sapere chi aveva davanti da che parte stesse. Non ero così presente a me stesso da chiedermi se davvero la rivoluzione della libertà avesse portato uguaglianza sociale - ma certo aveva portato con sé il sospetto, l’odio, il rancore persino tra amici e tra fratelli - se avesse insomma portato solo qualcosa di astratto, portandosi via invece l’amore e l’umanità, e il suo senso originario.
Così incrociavo spesso sbandati solitari come me, forse con storie simili alle spalle, o peggio usciti pazzi da quegli sconvolgimenti da cui la mia delusione per Lina mi aveva almeno in parte protetto. Ma assai spesso mi imbattevo anche in plotoni semi organizzati, gente rumorosa dalle barbe sfatte di giorni, con le armi a tracolla in bella vista, o al contrario nascoste sotto il cappotto, con gli aliti fumanti e puzza di tabacco e di alcol, che mi scrutavano con diffidenza.
Avevo in tasca il salvacondotto del funzionario, che mi aveva fatto scrivere sul momento a macchina da Linari, timbrato e firmato di suo pugno, ma non sapevo se fosse opportuno esibirlo o se quello piuttosto, anziché salvarmi la vita di fronte a un gruppo di rivoluzionari, me l’avrebbe invece sottratta di fronte a dei reazionari, dal momento che non avrei saputo in alcun modo distinguere gli uni dagli altri. Quantomeno nel viaggio di andata questo rischio non lo volevo correre, dopodiché una volta vista Lina – non avrei saputo bene perché – allora tutto si sarebbe compiuto, tutto sarebbe potuto succedermi.
Parte del viaggio la svolsi su un treno nascondendomi come un ladro – ciò che ero nella circostanza, se era ancora invalso l’uso di pagare il biglietto dopo la rivoluzione proletaria – nelle latrine, o passando di continuo di scompartimento in scompartimento.
Il poco denaro che avevo con me preferivo conservarlo per le vere emergenze, o al più per acquistare il biglietto di viaggio del ritorno, giacché ci tenevo a non giungere in ritardo all’appuntamento del venerdì, per il quale avevo dato la mia parola.
Chiunque incontrassi, nessuno parlava, come i miei compagni di cella; sembrava che piuttosto che condurre la libertà, quella rivoluzione avesse bloccato il mondo intero nella paura. Capii che non aveva tolto a me molto più di quanto non avesse fatto con tanti altri. Nessuno sorrideva, tutti guardavano tutti con sospetto e, così pareva, senza speranza e senza avvenire, come se qualsiasi interlocutore potesse rivelarsi una spia o un nemico sobillatore che parlando, avrebbe indotto a dire cose di cui ci si sarebbe pentiti, che si fosse da una parte o dall’altra della barricata. Perché se nella capitale e in molte altre grandi città la rivoluzione era ormai attuata e compiuta, la nomenclatura sostituita e chi avesse avuto da fare il voltagabbana aveva chiaro cosa fare e a chi rivolgersi, non così era ancora affatto nelle sterminate lande delle regioni estreme e nei villaggi di confine, dove la situazione era tuttora assai fluida, soggetta a cambiamenti repentini di zone di influenza e, conseguentemente, di opinione dominante.
Giunsi alla cittadina dove era fuggita Lina – fuggita da me - la sera del secondo giorno di viaggio. Pensai di recarmi presso la casa della zia, di cui avevo l’indirizzo, per chiedere dove potessi trovarla. Non conoscevo il cognome del marito e dunque non avevo altro modo di rintracciarla, col poco tempo a mia disposizione.
La zia viveva in una strada a ridosso del centro, ma assai riservata e silenziosa. Si trattava di un lungo viale alberato in leggera salita, che raggiungeva il parco pubblico dove, si diceva, si era svolta una cruenta lotta tra i rivoluzionari e le armate regolari, quando alcuni anni addietro quella cittadina un tempo fedele all’ordine secolare costituito era stata espugnata, diventando in breve invece una roccaforte della rivoluzione, che da essa aveva fatto base per propagarsi verso le province orientali. Proprio in quel parco si erano svolti gli scontri più feroci, e tuttora esso riportava i segni degli alberi abbattuti, delle buche delle bombe e dei cannoneggiamenti, delle fosse comuni riempite di cadaveri senza nome e richiuse in fretta e furia, senza neppure una croce o una lapide commemorativa, vecchi stilemi caduti in disgrazia con il nuovo corso.
Giunto al numero civico che corrispondeva all’indirizzo in mio possesso – si trattava di un piccolo edificio a due piani, costruito con una base di mattoni fino a due braccia da terra, quindi interamente in legno nella parte superiore – svoltai sul vialetto di accesso che attraversava il giardino antistante. C’era una luce accesa alla finestra proprio accanto alla porta d’ingresso, e da quella avvicinandomi scorsi due ombre di figure femminili, una donna anziana di fronte e un’altra di spalle.
Quando ero prossimo a bussare, quest’ultima si voltò di profilo, e io riconobbi immediatamente gli inconfondibili lineamenti di Lina.
Aveva quel visino particolare, fine e fanciullesco, e gli occhi chiari, quasi diafani. Stranamente, spiccava un naso prominente piccolo ma lungo che alle prime viste sembra essere fuori luogo rispetto ai tratti delicati del volto. Poi, quando ci si faceva l’abitudine, invece lo si apprezzava così com’era e non si vedeva quale altro avrebbe potuto donarle e appartenerle di più. Anche il labbro inferiore era un po’ sporgente e quando lei parlava si muoveva di un movimento elastico e accentuato rispetto alla bocca, così che le parole sembravano scivolare fuori su di esso per essere poi catapultate nell’aria una a una zampillando frivole come minuti spruzzi di giochi d’acqua. Per questa curiosa caratteristica, e per il fatto che la bocca si muoveva pochissimo, Lina quando si esprimeva in maniera seria sembrava sempre imbronciata. Parlava costantemente con un filo di voce tanto che spesso, anche a causa di un mio evidente principio di sordità, faticavo a capirla e dovevo ricostruire i concetti dai brandelli di frase che percepivo. Aveva una tonalità gaia e bambinesca, che tradiva la non estrema profondità dei suoi pensieri. Così risultava molto buffa quando parlava, anche perché spesso accompagnava le sue frasi con strani movimenti delle mani e della testa.
Provai un tuffo al cuore e, un istante dopo, fuggii via in preda al panico. Mi appostai nascosto dietro un albero del viale e mi misi di vedetta, a spiare la finestra a pianterreno dalla luce accesa, e sentii lentamente il cuore riprendere a pulsare con regolarità. Adesso che per buona sorte l’avevo a portata di mano, ebbene avevo il terrore di vederla uscire e di avvicinarla, sebbene quello fosse esattamente lo scopo del mio viaggio, deciso e intrapreso con lucido distacco e ritenuto, almeno in apparenza, di mero carattere informativo. Per allontanare l’angoscia opprimente cominciai forzatamente a riflettere circa le varie alternative possibili per le quali Lina si trovasse lì: forse gli sposi erano andati a vivere con la zia, o forse Lina era in visita, e in quel caso a breve sarebbe stata ora di rincasare.
Infatti poco dopo la persi di vista attraverso il vano della finestra, quindi dopo alcuni istanti lei uscì di casa. La vidi procedere per qualche momento lungo il vialetto di ghiaia del giardino, poi ebbi la sensazione che la vista mi si annebbiasse e che la mia mente perdesse le facoltà di controllo del corpo. Conservavo solo il senso dell’udito, che mi pareva anche più sviluppato del normale, e iniziai a sentire lo scalpiccio di scarpe da donna sul marciapiede lastricato del viale. Tante volte avevo avuto un sussulto, quando ero ancora libero in città a distribuire le mie carabattole da venditore ambulante, credendo di riconoscere in non so quante migliaia di camminate femminili quella caratteristica di Lina. Adesso sentivo di nuovo quel ritmo approssimarsi, il ticchettio regolare annunciarne, questa volta davvero, la sua venuta. Quando lo sentii vicino, senza rendermene pienamente conto, mi feci avanti dal buio del mio nascondiglio, ritrovandomi faccia a faccia con lei. Capisco bene che si dovette spaventare a morte.
“Cosa volete?”, fece terrorizzata, stringendo forte la borsetta tra le mani.
Sebbene fossimo a breve distanza l’uno dall’altra non mi riconobbe; non poteva farlo, ma non perché la luce dei lampioni fosse fioca e mi illuminasse di striscio, quanto piuttosto perché io ero divenuto un’altra persona rispetto a quanto lei potesse ricordare. Certamente il viaggio e la prigione mi avevano ridotto in uno stato impresentabile; ma ciò che davvero pesava erano quei due anni di lontananza, che per me erano valsi per venti, nei quali il deperimento della mia mente era andato di pari passo con quello del corpo. Così non solo l’aspetto esteriore più immediato era mutato in me, ma persino lo sguardo tradiva l’assenza di passioni.
Quando mi presentai e capì, allora si fece ancor più spaventata e recalcitrante.
“Cosa vuoi?”, ripeté con un filo di voce, il massimo che potesse tirare fuori, indietreggiando di un passo e stringendo le mani al petto come se dovesse proteggersi da un improvviso calo della temperatura, o da un violento colpo di vento.
“Lina, so che… So che adesso sei felice”.
“Cosa sai? Non sapete niente di me”, ribatté come parlando a se stessa, o a uno spirito. Anch’io non riconobbi la sua voce.
“Pensavo solo… volevo solo incontrarti. Non ti spaventare”, credo che avessi intenzione di avanzare, che l’impulso dal cervello alle gambe fosse partito, ma forse perduto lungo la strada, come tutto me stesso e la mia volontà. Sta di fatto che rimasi bloccato davanti a lei, con le braccia levate a mezz’aria come un manichino.
Lina non rispose, e non si mosse.
“Avete bambini?”, le chiesi ancora dopo un tempo che non saprei dire.
Di nuovo non disse nulla, come se non avesse capito, come se mi esprimessi in una lingua a lei sconosciuta.
“Sì, voglio dire, adesso che hai una famiglia…”
Le foglie di un ramo basso oscillavano lentamente davanti al lampione che dalla parte opposta del viale la illuminava, così coprendone e scoprendone il volto. In certi momenti mi sembrava un teschio latteo, in certi altri una bambina spaventata, oppure una regina offesa, in altri ancora una vecchia dal volto scavato e sofferente. Mi rispose una voce che non apparteneva a nessuna di tali figure: “Non c’è nessuno, non c’è mai stato nessuno, voglio solo che mi lasciate sola”, vidi scuotere la sua testa disperata, protetta dall’ombra delle fronde pudiche.
Nessuno, non c’era nessuno. Intendevo bene il significato di quel termine? Dunque non era sposata? Non aveva alcun uomo al suo fianco? E però “lasciate”, aveva detto “mi lasciate”. Perché aveva detto così? Se davvero non c’era nessun altro, almeno un altro pretendente, qualcuno che le facesse la corte, avrebbe dovuto dire “lasci”. Così come diceva “voglio essere la tua donna”.
Fui colto dall’angoscia, dal dubbio che ci fosse davvero qualcuno intorno a lei, sia pure che lei avesse rifiutato. Sentivo contorcersi lo stomaco per quel dubbio; eppure ero giunto fin lì sicuro che fosse persino sposata, e così ero convinto fino a pochi istanti prima, senza che ciò mi causasse più dolore, quantomeno immediato. Cosa accadeva adesso? Mi assaliva il terrore di perderla, di averla persa, l’ansia di non aver fatto nulla per scongiurare tale eventualità per più di due anni; per la prima volta misi a fuoco quel fatto, il terribile rischio quotidiano che avevo corso senza rendermene conto.
Nel frattempo non mi accorsi che si era voltata, perché il mio sguardo era assente; tuttora diretto verso il suo volto, ma lo oltrepassava senza vederlo. Vidi un’ombra, una specie di fantasma galleggiare allontanandosi su un tappeto di nebbiolina bassa, risalendo il viale in direzione del parco, e non seppi dire o fare alcunché. La vidi scomparire, svaporare sciogliendosi lentamente la sua figura in quella nebbia.
Ormai mi ero voltato anch’io, e avevo preso ad andarmene lungo quel viale scuro di alti platani, spettrali e tristi come me, in quella sera fredda e livida, tra le foglie in terra bagnate di umido. I lampioni erano bassi e rari, e diffondevano una luce opalescente dovuta alla nebbiolina che si alzava dal terreno. Percepii un lontano fruscio di fronde, poi un lamento sommesso come il pianto di un bambino malato; mi colse improvvisamente un freddo intenso alla schiena, quindi sentii un rumore più forte dietro le mie spalle. Ma prima che potessi girarmi già una raffica disperata di piccoli pungi mi raggiungeva sulla nuca per poi proseguire sul petto, e una voce strozzata li accompagnava: “Ti ho aspettato due anni, due anni, perché non sei venuto a prendermi?”
Non avevo capito nulla dunque. Non avevo capito quello che lei sapeva, e che così, con la sua fuga, non aveva fatto altro che confermare. Lina sapeva che avremmo avuto un destino comune, che il nostro legame si sarebbe suggellato con quella fuga e poi col ricongiungimento che ne sarebbe seguito. Le donne spesso sanno le cose pur senza necessariamente capirle. Di contro io, con una razionalità gretta e meschina, del tutto maschile, avevo valutato quel suo gesto per quello che superficialmente appariva, per l’appunto un addio per non più rivederci, come le sue parole avevano effettivamente espresso. Tutti i miei lucidi conti tornavano, la mia sofferenza, la notizia del suo presto matrimonio con un individuo convenzionale, la sua prospettiva di una vita sciatta, il rifiuto di me per via dei miei modi di essere. Tutto propendeva per una storia finita e sepolta, senza più speranze. E invece Lina stava aspettando, aspettava che la mia logica cedesse il passo alle ragioni del cuore. Le chiesi delle lettere, delle tante lettere che le avevo scritto senza ottenere risposta, ma non ricevetti risposta neppure a tale domanda. Non credo che non le fossero giunte, ma probabilmente davvero non le aveva aperte, perché dal suo punto di vista non c’era senso, non aveva alcun valore scambiarci corrispondenza, non era questo ciò che sarebbe dovuto accadere. Sarei dovuto andare lì, dovevo andare lì a prenderla, questa era l’unica via per comunicare con lei, l’unico atto che avrei dovuto dimostrarle. In quei due lunghi anni, può sembrare assurdo, ma neppure una volta mi venne in mente di andare a cercarla; certo di essere rifiutato per sempre, rassicurato in tale mia convinzione tranquillizzante dalla notizia falsa del suo matrimonio, crogiolandomi nel dolore di quel rifiuto e nell’essere stato sostituito con una figura adeguata e rassicurante, stabile e ordinaria, capace di prospettarle un avvenire solido e insignificante. Anche prima di finire in prigione, perché mai non le ero corso dietro? Possibile che solo la prospettiva della morte mi aveva destato dal torpore della mia logica stringente, che ci vedeva su strade separate senza appello e senza rimedio? Come avevo assunto certo e inesauribile il nostro amore in precedenza, così lo avevo giudicato irreparabilmente perduto in seguito. Ma io non potevo agire su nulla che riguardasse la mia vita?
In tal modo ci riconciliammo, quella sera buia nel viale dall’aria umida, con le foglie degli alberi in terra marce. Però l’indomani sarei dovuto tornare da dove ero venuto, avevo dato la mia parola d’onore e a quella non sarei potuto venir meno. Anche perché, adesso lo sapevo, anche Lina era d’accordo con me, sebbene avesse sempre contestato la mia irragionevolezza. Però adesso sapevo che lei mi amava così com’ero; mi amava più tenace di me, più forte di me; umiliandomi col suo amore e con la sua voglia di vita. Dovevo tornare per troncare definitivamente quella rinuncia alla vita alla quale mi ero assuefatto; dovevo tornare per rendermi libero e per aprirmi all’amore, dovevo tornare alla pena per riscattarmi da me stesso, per poter tornare a Lina.
Adesso era diverso, adesso tutto era diverso. Adesso avevo di nuovo qualcosa per cui lottare, la mia vita aveva trovato il suo senso. Andai, ed ero certo di potercela fare.

Dunque tornai, presentandomi un’ora prima del dovuto, con la consapevolezza di potere e dover riuscire.
Chiesi di Linari all’ingresso, come il funzionario mi aveva detto di fare, ma il commesso mi disse che non era ancora in ufficio. Allora chiesi di essere ricevuto direttamente dal funzionario, ma senza presentazione ciò sarebbe stato impossibile e mi fu rifiutato. Ero ancora in anticipo rispetto all’ora convenuta, dunque sedetti nel vasto atrio d’ingresso a una delle panche disposte lungo gran parte del perimetro della sala semicircolare, intercalate alle svariate porte che su di essa si aprivano.
Alle dieci esatte tornai dal commesso, ma questi mi ribadì che Linari non era ancora giunto; del resto ero rimasto attento a sorvegliare l’ingresso e non lo avevo visto transitare. Dopo diverso tempo – era trascorsa almeno un’altra mezz’ora, e io non sapevo davvero come risolvere quella situazione – lo vidi passare, furtivo come un ladro, da una porta a quella adiacente: ci mise un secondo ma, non so perché, un sesto senso mi aveva consigliato di tenere gli occhi aperti. A quel punto, seppi che avrei dovuto raggiugere il funzionario da solo.
Andai nei bagni. Tolsi il cappotto e lo abbandonai lì dentro, quindi presi un grosso scatolone pieno di saponi e spazzole appoggiato in terra in uno dei bagni che fungeva da magazzino. Me lo caricai sulle spalle e uscii con la massima naturalezza. Girai corridoi e corridoi, salii piani su piani con quel fardello sulla schiena, ma alla fine – era appena scoccato il mezzogiorno – individuai la porta giusta. Bussai, ed entrai un attimo dopo senza neppure attendere una risposta.


“Confesso che mi hai deluso, Servignani. Avevo scommesso con Linari che saresti stato di parola”, osservò il funzionario vedendomi, non affatto sorpreso.
“Sono qui dalle nove, deve esserci stato un malinteso”, risposi trattenendo a stento la stizza.
Il funzionario mostrò di credermi, e anche di immaginare facilmente di che tipo di equivoco si fosse trattato. Guardò Linari con una specie di disgusto – adesso era lì dentro, il vigliacco - perché questa era la considerazione che meritava. A me non interessava nulla della loro rivoluzione, dei massacri perpetrati e dei delitti di cui il funzionario si era macchiato nel nome di quella, però dovevo almeno ammettere che si trattava di un criminale autentico, dotato di polso e di spina dorsale, mentre quel topo di fogna doveva essere un ruffiano della peggior specie. E il funzionario doveva pensarla esattamente come me.
Di primo acchito mi era venuto in effetti di smascherare quel farabutto, ma poi mi accorsi di essere troppo concentrato sul mio compito, la mia missione privata che il direttore non poteva immaginare, per poter disperdere energie mentali preziose. Quei due credevano legittimamente che io mi stessi giocando il bene supremo della vita e della libertà, e così l’uno aveva brigato per impedirmelo, l’altro era cinicamente curioso di vedere se fossi stato in grado di conquistarmele – mi teneva in una gabbia come una cavia da esperimento, e voleva studiare le mie abilità di cavarmi d’impaccio. Ma non potevano immaginare che della libertà, e persino della vita, non me ne sarei fatto nulla, che io ero invece lì per amore.
Dunque poco dopo le dodici potei finalmente iniziare, sebbene il tempo a mia disposizione, grazie ai buoni servigi di Linari, si era quasi dimezzato. A ogni modo avevo tutto il pomeriggio davanti a me, giacché mi era stato concesso fino all’ora del tramonto.
Cominciai con una rapida analisi delle frequenze, che grazie alle mie notevoli capacità mi condusse presto a individuare le posizioni di almeno due vocali e di una consonante comune, forse la ‘s’, e a escludere nel contempo alcuni metodi di cifratura.
Compresi presto, già nella prima mezz’ora, che la chiave di cifratura doveva essere costituita da una successione di una ventina di lettere, pertanto di tre o quattro parole, componenti con tutta probabilità una frase di senso compiuto. L’inizio era assai promettente, e mi persuasi che avrei volto in chiaro il messaggio ben prima della scadenza.
Ero stato rinchiuso in una stanza angusta, priva di finestre, con una parete a vetri smerigliati al centro della quale si apriva l’unica porta. Dietro di essa vedevo scorrere di frequente ombre di individui, fantasmi indifferenti alla tragedia che al di là del vetro si stava consumando; insignificanti funzionari governativi, mediocri servi burocrati calpestavano di continuo quel corridoio portando dossier sui nemici del popolo, documenti con piani di sviluppo sociale e programmi di propaganda. Sulla parete opposta della vetrata c’era una pendola di legno scuro, alta quasi fino al soffitto, che me ne ricordava una analoga nella casa di campagna del nonno, che da bambino la sera mi faceva paura con la sua mole e la sua ombra scura nella vecchia camera da pranzo sguarnita.
Procedevo con destrezza nel lavoro, poiché la materia la maneggiavo davvero bene a quel tempo, anche se da lungo periodo non la praticavo più. Lentamente uscivano fuori brandelli di parole di senso compiuto, e così pure spezzoni di frasi sconnesse; avevo già in mano la lunghezza della chiave, e buona parte del suo contenuto; eppure non tutto pareva voler rientrare nei miei schemi consolidati, diversi termini scovati apparivano riottosi o incongruenti, oppure inesatti magari per una sola lettera. Mi ero indirizzato su “sogni nell’inquietudine”, ma c’era qualcosa che non andava nel centro della frase, mi aspettavo una consonante raddoppiata, ma quella doppia ‘l’ non doveva trovarsi lì dove figurava – e in verità non ero neppure così certo che si trattasse della lettera giusta.
Rimuginavo, rimuginavo mentre il tempo scorreva, finché non iniziò a correre con troppa velocità; tre ore erano passate, e poco più di una me ne rimaneva, ma io ero ormai incagliato su quel basso fondale, su quello scoglio nascosto traditore, appena affiorante, da troppo tempo. Quella chiave individuata con tanta facilità si stava trasformando in una maledizione, conducendomi la realtà come l’incubo che il suo significato evocava.
Adesso il tempo volava. Volava beffardo come un rapace, come un avvoltoio volteggiando sulla mia testa di condannato, scandito dalla pendola che mi ricordava dannatamente quella della casa di campagna paterna. Erano le quattro di pomeriggio.
Disperato, ma lucido, ripresi daccapo, come se le quattro ore precedenti non fossero addirittura esistite; in un’ora ero perfettamente in grado di volgere in chiaro un messaggio di sedici righe.
Ma così non doveva essere. Quando la pendola suonò le cinque meno un quarto, ancora non ero venuto a capo di nulla. Il mondo mi crollava addosso, sebbene pochi giorni prima l’avrei persino benedetto quel destino. Ma adesso non più, adesso no, Signore, adesso ti prego devi aiutarmi.
“Signore, abbi pietà di me!”, gridai lasciandomi andare sulle ginocchia.
Ho un ricordo vago di quanto accadde in seguito, quel giorno. Vedo solo dietro la parete a vetri smerigliati fermarsi ombre e affacciarsi teschi e occhi curiosi come spettri. E su di essa vedo prendere forma solo un’immagine, vedo lentamente schiarirsi quelle sedici righe da una successione di caratteri indistinti in parole compiute, grazie a quell’implorazione che miracolosamente ne costituiva la chiave. Ricordo quella doppia ‘l’ che non mi quadrava per nulla, finalmente disporsi un carattere più avanti prendendo le sembianze della doppia ‘b’; ricordo distintamente l’ultimo scampolo di frase, convertirsi da un “…dine” al “…di me”; e poi “Signore”, che invocato prende il posto di “Sogni ne…”. Tutto questo mi comparve, quasi materializzandosi, davanti agli occhi mentre ero ancora in ginocchio, con una patina di lacrime che mi offuscava la vista.

Adesso vivo in una sperduta cittadina dell’impero, perché di impero nuovamente si tratta. Per il mio merito ebbi salva la vita e un lavoretto di esperto. Nel corso degli anni, nessuno si occupò più di me e delle mie capacità, tantomeno io stesso pensai a conservarle e promuoverle presso i miei superiori e pertanto sono andate pressoché perdute. Sono operaio presso una fabbrica e vivo la mia vita insignificante: ma d’altronde quanti uomini hanno visto avverarsi la vita dei loro sogni di ragazzo? Sono felice con Lina, sebbene tuttora ogni tanto vada soggetto ai miei dubbi esistenziali. E forse non aspetto altro, senza cercarmela ma senza neppure temerla, quella morte che un giorno per amore scampai.




LEI NON SA CHI SONO IO

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Abituato a trattare da pari a pari con i maggiorenti del mondo, al momento del giudizio sommo Gastone Del Bene non volle essere valutato da un Santo qualsiasi, ma pretese di contrattare la sua futura posizione direttamente col Padreterno. Per l’occasione si era preparato a puntino, curando il proprio aspetto in maniera che non risultasse troppo ricercato e pomposo, giacché non intendeva porre sul piatto della bilancia il suo prestigio personale guadagnatosi sulla Terra, dando cioè in qualche modo l’impressione di voler influenzare pur indirettamente il proprio interlocutore, ammaliandolo con il suo stesso sussiego e la sua eleganza. Né, allo stesso modo, riteneva opportuno ostentare una eccessiva sicurezza, quanto piuttosto si trattava di mantenere quella sobria gradevolezza che era stata da sempre suo carattere distintivo e che dava di lui un’impressione così rassicurante e ammodo da aver avuto una parte non affatto trascurabile nel raggiungimento dei suoi tanti successi. Aveva allora considerato conveniente assumere un contegno di dignitosa deferenza al cospetto di Dio, vale a dire riconoscendosi Suo servitore e tributandogli il rispetto dovuto, senza però svilirsi e sminuire la sua personalità con ossequi eccessivi o cortesia manieristica, che avrebbero potuto confondersi con inopportuna ruffianeria o esser scambiati per un subdolo invito alla compiacenza. Era invece nella sua dignità insita la sua stessa salvezza, e di ciò non c’era affatto da dubitare. Il suo obiettivo era evidentemente la quarta nuvola a sinistra, ritenendosi egli particolarmente adatto all’incarico che ivi si svolgeva, e giudicandosi in grado di assumerne la responsabilità completa entro poco tempo, non appena acquisita qualche minima esperienza nel campo. Di lì, dimostrando buone doti di gestione, avrebbe poi ambito in breve a qualche promozione significativa, o a estendere la sua influenza e il suo impegno a qualche altro posto vacante. In genere l’Onnipotente non aveva tempo da perdere con le anime appena giunte, e ne delegava agli uffici preposti l’incombenza del giudizio. Gran parte delle pratiche risultavano di difficoltà davvero irrisoria, vecchiette innocue, poverelli e reietti del mondo, umili onesti lavoratori incurvati dalle fatiche, e venivano sbrigate con solerzia direttamente al Centro di Accoglienza dagli Angeli di turno. Tutt’al più, le questioni più spinose potevano arrivare agli Affari Speciali, dove San Pietro era coadiuvato da una squadra di Serafini estremamente ferrati in materia, per cui anche in questi casi i giudizi risultavano rapidi e precisi. Lui stesso aveva modo di intervenire personalmente assai di rado, oberato di lavoro com’era, ma per fortuna non ce n’era quasi mai bisogno. Tuttavia stavolta, sentendosi un poco affaticato, il Giudice Estremo volle concedersi qualche momento di distrazione dalle cose del mondo e acconsentì al confronto richiesto dall’esimio Gastone Del Bene, già parlamentare, sottosegretario di stato, ministro, presidente di commissione, segretario di partito e tanto altro ancora nella sua vita terrena appena conclusa. Così il buon Dio chiamò San Pietro alla plancia di comando, raccomandandogli della questione di quegli sventurati che si sparavano addosso giù sulla Terra, e di tenere sott’occhio i lavori della conferenza mondiale sulla pace e sulla fratellanza, assicurando che si sarebbe assentato non più di una mezz’ora. Quindi se ne andò nel suo studio privato sulla nuvoletta iperborea, disponendo che venisse introdotto il Del Bene. Intanto aveva inforcato gli occhiali e preso a scartabellare l’incartamento che riguardava il giudicando, dove erano indicate fin nei dettagli tanto tutte le nequizie quanto gli atti meritori da lui compiuti in vita. Finalmente il Nostro entrò con un timido “Permesso?”, quindi si qualificò con voce limpida e netta, e tuttavia con una compunzione che risultò un po’ troppo affettata, cosa della quale si rese subito conto, non riuscendo a trattenere un breve cenno di disappunto per non essere riuscito appieno a mantenere l’atteggiamento che si era prefisso. A ogni modo il buon Dio era concentrato sulla lettura e non aveva prestato alcuna attenzione alla scena. Solo, gli indicò di sedere. Immediatamente allora si materializzò una nuvoletta in forma di un comodo divanetto dietro alle natiche del Del Bene, il quale, senza sapersi riavere dalla sorpresa, sedette sbigottito, ritrovandosi a pensare per un solo istante a quali mirabili traguardi avrebbe potuto raggiungere nella vita terrena se avesse potuto disporre di mezzi del genere di cui aveva appena avuto un saggio. Provò invero un pizzico di invidia. Il Creatore esordì con fare pensoso: “Dunque, vediamo, nato qui… cresciuto lì, scuola… tre anni di chierichetto…” “Beh, sì, - ritenne utile intervenire tempestivo Gastone Del Bene per perorare la sua causa - sono stato a Santa Maria delle Grazie…” “Sì, va bene, ma questo vuol dire poco…” intese azzittirlo il Padreterno parlando quasi tra sé, con un gesto eloquente della mano a indicare la trascurabilità del fatto, senza neanche alzare gli occhi dalle scartoffie e riprendendo piuttosto la lettura. Ma lui ormai era lanciato, come quando dalle domande concordate con qualche giornalista, in una certa intervista prendeva lo spunto per elencare tutti gli impegni mantenuti con gli elettori, e i meriti a sé e al suo partito ascrivibili. “…servivo le ampolline, sa, una bella responsabilità, fui il più giovane ad aver mai assolto a quel compito in tutta la Parrocchia. Poi purtroppo dovetti trasferirmi per via del lavoro del babbo… e pensare che Padre Onofrio mi aveva promesso anche il turibolo…” Ma il Signore Iddio non gli dava affatto retta, e anzi, scorrendo il rapporto che aveva tra le mani, andava rapidamente – e pericolosamente – chiarendosi le idee. Il suo volto imperturbabile sembrava addirittura adombrarsi, alle volte, e questo certo non poteva essere di buon auspicio per la sorte del Nostro, dal momento che in genere Egli si mostrava assolutamente impenetrabile nei suoi pensieri, anche di fronte alle più gravi efferatezze terrene cui doveva quotidianamente assistere (“…e tutto a causa di quella benedetta decisione di dotare questi poveri figliuoli di libero arbitrio”, si ritrovava ogni tanto a riflettere il buon Dio con un velo forse di rimpianto). “Ahi, ahi - fece alla fine, arrestando di colpo l’arringa del Del Bene, giunta a quel punto alla capitale decisione, all’età di sedici anni, di cimentarsi nell’agone politico, per il bene del popolo, ovviamente – qui si è desiderato a dismisura la roba d’altri…” Era passato ai grafici analitici riassuntivi, che erano sempre posti in calce alla relazione verbale redatta al Centro di Accoglienza. “Oh, beh, capisco forse a cosa allude – fu pronto l’altro – una faccenduola da nulla, invero, non varrebbe neanche la pena… ma, ecco, a questo riguardo, mi permetta giusto due parole, tanto per gettare un poco di luce su una vicenda così… oserei dire… montata ad arte per screditarmi, ecco, sa… non si tratta di altro che di uno spiacevole malinteso. Dunque, veda…” E così intendeva dilungarsi chissà ancora per quanto, se non fosse stato incalzato da un altro appunto dell’Onnipotente: “Uh, e qui cosa vedo! Una notevole concentrazione di falsa testimonianza… ohibò, siamo persino in scala logaritmica!” “Ma sì, può essere, in una certa ottica, leggendo i dati in maniera asettica… – ammise il Del Bene con mirabile savoir-faire – ma, certo, Lei lo sa meglio di me, la gestione del mondo è così complessa, veda…” Gli sovvenne in quel frangente delle tante volte che era apparso alle trasmissioni televisive di prima serata, ai dibattiti di fronte a un pubblico in studio da ammansire e ai milioni di spettatori dall’altra parte del tubo catodico da confortare. E così, la forza dell’abitudine, si fece prendere ancora una volta la mano. Il buon Dio lo lasciò fare: “Lei capirà bene come in alcuni frangenti siano necessarie, come si dice, alcune rettifiche di coerenza, vorrei dire, ecco… alla immanenza dei fatti… d’altro canto, quante volte questioni di opportunità necessitano di un certo sforzo sinergico di mediazione, per motivi di stabilità sociale, mi comprenderà… affinché uno spirito libero e libertario, ma non certo liberista o peggio libertino, Dio ne scampi! non sia, dicevo, allettato dai fuochi fatui delle false demagogie… quando si tratta di questioni di pubblica utilità, quando è in gioco il valore della democrazia sociale in una contrapposizione dialettica a pericolosi consociativismi, nell’esasperazione di un obiettivo orientato da una opposizione costruttiva e propositiva, piuttosto che da una faziosità preconcetta, ecco, per dirla con Sant’Agostino, sì, non per fare il saccente, sa, la Città di Dio…” Aveva l’arsura in gola, ma proseguiva con slancio ammirevole: “…ora vede, nell’ambito di una iniziativa progettuale che voglia risultare sempre tesa alla erogazione di servizi efficaci ed efficienti, dovendo poi tener conto, Lei mi capisce, delle istanze che pervengono da parti le più diverse, e nel quadro del vivo rapporto di collaborazione ormai consolidato, risulta opportuno procedere secondo le modalità stabilite in commissione di bilancio (da me presieduta, ecco, lo dico così a titolo informativo, sia gentile, non mi fraintenda) al fine di assicurare un quanto più rapido apporto, mantenendo le caratteristiche stesse di efficacia, ma soprattutto di efficienza, che richiede – e che, devo dire, bando alla modestia, via, hanno da sempre contraddistinto la nostra coalizione - un orientamento di crescita amministrativa, e massimamente impegnata nell’obiettivo del benessere del cittadino, ciò che è stato ed è per noi, motivo primo di vanto e di preoccupazione e nella ferma convinzione che le strategie di una politica sociale dura ma coerente, pur in ottica pluralistica, s’intende, debbano comunque sempre essere supportate dall’impegno costante e non ostacolato da sterili conflittualità che le rendono incerte nella misura della loro stessa precarietà, e in funzione delle procedure, in termini qualitativi, che possano venire adottate con tempestività e in virtù delle quali…” Il povero Padreterno, intanto, investito da quel fiume di parole, si era appena appena assopito. Si riebbe dopo poco, ma d’altronde il destino di Gastone Del Bene era ormai già da tempo più che evidente agli occhi del Giudice Virtuoso: la condanna certa, alle pene eterne. Era una faccenda da Angioletto alle prime armi, altro che scomodare l’Onnipotente! Tuttavia il poveruomo non dava affatto a intendere di averlo capito, convinto com’era nel suo più intimo di meritare il Paradiso senza ombra di dubbio; non lo sospettava minimamente, dando per assodata una sua presunta rettitudine di pensieri e azioni per l’intero corso della sua esistenza sensibile; non avendo mai neanche preso in considerazione soluzioni diverse da questa. Allora Dio glie lo dovette dire esplicitamente, compito ingrato ma necessario, che tante volte aveva dovuto accollarsi. Lo informò, infine, con mestizia saggia. Incredulo, il Del Bene se lo dovette far ripetere tre volte prima di essere certo di aver capito: intanto il suo volto passava tutti i colori dell’iride, prese a sudare dal collo taurino e il labbro inferiore iniziò a tremargli come quello di un pupetto spaurito. Barcollò come un pugile suonato. Ma proprio come un lottatore, abituato a mille battaglie verbali, a lanciare e schivare miriadi di accuse, a edificare e abbattere sofismi alla bisogna, a discussioni di principio e a dichiarazioni di principi, di verità fondanti e di inalienabili diritti, si riebbe con uno scatto di lucido orgoglio, e risolse finalmente la questione col cipiglio dell’abile governante, del politico decisionista, conclusivo e definitivo: “Va bene, allora guardi, torno giù un momento a sistemare queste sviste, poi ci rincontriamo e componiamo questa vertenza, d’accordo?” Ma pare che lassù le cose non andassero esattamente al modo che gli era consueto quando si trovava ai tavoli sindacali e ai congressi di partito, dove le parallele convergevano e il potere logorava chi non ce l’aveva. Non c’era più modo di rimediare, nell’Alto dei Cieli. Allora dovette farsi più conciliante, e riconsiderare le sue ambizioni in attesa del passare della buriana. Da abile diplomatico quale era, puntò al massimo verosimilmente ottenibile, a strappare magari un modesto Purgatorio, qualche tempo di lievi penitenze e pie preghiere. Certo sarebbe stata una seccatura, quell’attesa inattesa, un noioso ritardo, ma se davvero non c’era altro modo… Tuttavia il Signore Iddio si mantenne ingenerosamente inflessibile anche di fronte a quella seconda più contenuta proposta, dimostrandosi meno ragionevole, dispiace dirlo, di quanto il suo fervente fedele avrebbe ritenuto sensato attendersi. A questo ulteriore rifiuto Gastone Del Bene cominciò a prendere seria consapevolezza del rischio che correva, del guaio in cui si era andato a cacciare, e iniziò a sudare freddo per davvero. Il suo proverbiale aplomb vacillò, crollando in un piagnucolare che presagiva il peggio. “Ma io mi pento, giuro che mi pento, mi pento adesso, subito!” Mai tanto sgomento l’aveva attanagliato in tutta la sua vita terrena come gli stava accadendo in quel momento, mai tanto dispetto misto a terrore lo aveva costretto in situazione di imbarazzo e incertezza. Aveva fatto due occhietti ingenui e innocenti da micetto spaurito, e messo il broncio come un bimbo permaloso. Ma ancora non c’era verso di condurre l’Altro a una posizione più accomodante, di trovare insomma un accordo sereno tra gentiluomini, una conciliazione di buonsenso che soddisfacesse entrambe le parti. Di fronte a tanta intransigenza fondamentalista, ecco allora il Nostro sfortunato aggrapparsi a un ultimo moto d’orgoglio, fare appello alle massime virtù dell’Uomo, al senso alto della Giustizia dello Stato, e alle Istituzioni Democratiche che questi ha saputo creare a tutela del debole e dell’indifeso, in millenni di crescita civile e culturale cui lui stesso, modestamente, aveva dato un certo contributo. “Quand’è così – fece dunque stizzito l’onorevole – mi vedo costretto a informarLa che intendo presentare ricorso presso…, dove tra l’altro possiedo incidentalmente amicizie influenti, e che non lasceranno andare le cose con troppa noncuranza, glie Lo garantisco!” Ma oramai Gastone Del Bene non farfugliava che frasi sconnesse in un incubo di delirio. “No, aiuto, mi appello al tribunale, io La querelo per calunnia, io rigetto le Sue accuse infamanti, Lei lede la mia immagine e dovrà rispondere di questo nelle sedi opportune, adirò le vie legali… La prego, ci ripensi, faccio appello alla Sua ben nota generosità, sia magnanimo… Io La porto alla sbarra, caro Lei, Lei dovrà rendermi conto, io non sono disposto a tollerare oltre i Suoi soprusi, queste derive oscurantiste… Le do un’ultima occasione… Io Le faccio passare i guai, Lei non sa chi sono io…” Ma intanto la nuvoletta su cui si trovava andava inesorabilmente dissolvendosi, e sotto si mostravano minacciosi i flutti scuri dell’Acheronte, neri come la pece, e il mostro dall’occhi di bragia guardava all’insù con ghigno satanico, appoggiato comodamente al lungo remo in attesa di riempire un ennesimo carico di dannati da traghettare all’Ade. Alla fine, venendogli a mancare l’etereo sostegno sotto i piedi, Gastone Del Bene precipitò dritto tra le sue grinfie. Il Signore Iddio si alzò a fatica dalla scrivania, ripose senza fretta gli occhiali da lettura e se ne tornò a passi stanchi al timone del mondo. Camminava a testa china, sconsolato, e scuotendo la testa sospirava tra sé: “Eh, non impareranno mai…” Pareva così triste.




LUCIO LIVIO CAGLIOZZI ALLA RESA DEI CONTI

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Epimenide, cretese, afferma che tutti i cretesi mentono.
L’insieme di tutti gli insiemi che non contengono se stessi, contiene e non contiene se stesso.


Concentrato sui suoi propri affari, all’altezza di un passaggio a livello incustodito col meccanismo difettoso, il fisico emerito Lucio Livio Cagliozzi non si avvide del sopraggiungere del treno e venne travolto nella sua auto da una massa di trentacinque tonnellate di metallo in corsa alla velocità di ottanta chilometri all’ora, per una quantità di moto pari a sette-cento-settanta-sette-mila-sette-cento-settanta-sette chilogrammi per metro al secondo.
Si riebbe leggero come l’aria, al cospetto di una luce vivissima che non poteva sostenere con lo sguardo. Quindi venne interrogato da un vegliardo dalla barba lunga candida, che portava alla cintola le chiavi del Cielo.
“Lucio Livio Cagliozzi, hai mai peccato contro Dio e contro gli uomini?” echeggiò tra le nuvole la sua voce roboante.
Lucio Livio Cagliozzi era puro come un infante, non aveva mai fatto del male ad anima viva, e aveva seguito scrupolosamente tutti i precetti impartiti dalla sua religione. Aveva dedicato la sua vita alla scienza, per via del sacro fuoco che gli ardeva dentro, e tuttavia non aveva mai trascurato gli affetti e l’onestà, mai aveva anteposto i propri interessi a quelli altrui; mai nulla aveva intrapreso che fosse di nocumento al prossimo, mai lesinato un aiuto verso una mano tesa. Era davvero un santo, a ben vedere.
Però la domanda lo colse così di sorpresa, e lui era così timido e aveva tale suggestione dell’austero giudice che gli si era parato dinnanzi, che rispose confuso, senza riuscire a riflettere con lucidità. Solo, fece una rapida valutazione intuitiva su quale delle due possibili risposte alternative era la più verosimile, cosa era più probabile che fosse accaduto nel corso dell’intera sua vita, e disse: “Mah, sì, temo di sì..”
“Lucio Livio Cagliozzi, di quali peccati capitali hai macchiato la tua anima? Accidia, forse? Ovvero ira, o magari ancora avarizia? Che sia stata superbia, la tua? Sia stata lussuria? O fu l’invidia a farti cadere, oppure anche la gola?”
Nessuno di questi gli era, a ben vedere, imputabile, ma Lucio Livio Cagliozzi era troppo spaventato per riuscire a discernere l’accaduto dal verosimile e per protestare la propria innocenza.
“Fornicazione? Adulterio, forse, insomma atti impuri? Oppure latrocio… - proseguiva inquisitorio Simon Pietro l’impietoso elenco delle possibili nefandezze – …o hai magari contravvenuto a qualcun altro dei Comandamenti? Rammenta bene, Lucio Livio Cagliozzi, ambisti mai a roba altrui? O peggio, ne ghermisti la donna? Hai sempre santificato il giorno del Signore? Mai lo nomasti a sproposito, Lucio Livio Cagliozzi? Non sarà mica che ti sei macchiato di assassinio! – respinse lontano da sé con mano ferma questa orrenda ipotesi - O che tu non abbia sempre reso onore ai tuoi genitori!”
Infine, ne mancava ancora un ultimo all’appello ”Hai mai detto falsa testimonianza?”
A questo, pur stordito da quella gragnola di colpe che gli franava addosso instillandogli il dubbio del rimorso, ma con un ultimo moto d’orgoglio, e con lucida disperata certezza Lucio Livio Cagliozzi rivendicò con forza: “Ah, no, mai! Questo no, io non mento!” “Ebbene, Lucio Livio Cagliozzi, - rintuzzò il vecchio saggio puntandogli contro il dito ossuto accusatore - ti dirò in verità che tu non hai peccato di alcunché, salvo proprio che di menzogna. E lo hai fatto di fronte a me, giusto adesso, ammettendo colpe che non avevi…” “Vedi bene, dunque, Lucio Livio Cagliozzi, che tu menti! Puoi forse negarlo?” riprese poi dopo un breve istante di pausa. Dotato di ammirevole onestà intellettuale, Lucio Livio Cagliozzi dovette ammettere con rammarico: “Ebbene sì, io mento.” Ancora il Sacro Custode: “Quand’è così, Lucio Livio Cagliozzi, se affermi questo, è parimenti vero che tu non menti, e nulla può esserti dunque ascritto a colpa!” Ma, sgomento di tutto quanto accaduto, Lucio Livio Cagliozzi non colse l’ultima frase del vecchio. Si guardò invece dietro le spalle, ai margini della rupe sulla quale si era trovato, e sotto la quale le fiamme eterne dell’Inferno ardevano in una distesa senza fine di metalli liquefatti, come il nocciolo più imo del centro della Terra. In essa annaspavano spettri tremendi già di esseri umani, sfigurati dallo sforzo di tenersi a galla e dalla sofferenza dell’arsura. Sopraffatto dalla vergogna, Lucio Livio Cagliozzi si lasciò cadere giù verso l’espiazione eterna. Ma San Pietro fu lesto, lo riacciuffò per i capelli e se lo portò su in Paradiso, che quella menzogna che gli era sfuggita era oltre il tempo massimo della vita terrena e non andava dunque computata. Lucio Livio Cagliozzi resse per tempo infinito la cattedra di Logica Formale presso la sesta nuvola a destra, al cospetto di Dio, introducendo tutte le Anime Sante alle spinose questioni delle antinomie del linguaggio.




IN MORTE DI ONDO PERONI

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Ondo Peroni volle assistere alle venationes romane, e non trovò modo migliore che quello di infilarsi nell’antro di Akronos per essere catapultato giusto un paio di millenni indietro. Fece richiesta al custode del Tempo, il perfido ragno nero dagli occhi vitrei e dalla scorza metallica, e attese con pazienza. Non mancò molto che si alzò il vento della Solitudine, ululante nella caverna fredda, e lo sollevò conducendolo e sbatacchiandolo come un fantoccio di stracci lungo le pareti spigolose e viscide, in vortice incontrollato giù per il pozzo angusto che pareva senza fine. Poi si ritrovò vestito di una vecchia tunica lacera, tutto ecchimosi ed escoriazioni per via di quel viaggio avventuroso, buttato a terra nella polvere e nella rena rossa argillosa, chiuso in una oscura cella dell’hypogeum. Intorno a lui, timido e mingherlino, energumeni villosi dall’aspetto brutale si scambiavano in crocchi brevi battute con voci rauche e profonde. Sui loro volti tirati si dipingeva una tensione grave, seppure mitigata da una sorta di consapevolezza fatale. L’aria era fetida e irrespirabile in quel luogo angusto troppo popolato, il suolo umido e marcio. Il silenzio, denso solo del bisbiglio sopito delle voci dei suoi occasionali compagni e di un lontano rumore uniforme come di mare in burrasca, era rotto a momenti irregolari da un clangore di catene e da rapidi sfregamenti di metalli. Il buio, dalle scintille che ne scaturivano. Allora si avvicinò lentamente un chiarore di torcia, e un acre odore di olio e di fumo andò a soverchiare il puzzo stantio precedente. Si alzò presto un rumore concitato. Tutto l’ambiente si animò in pochi istanti di una agitazione febbrile. Gli uomini presero a svolgere esercizi ginnici per sciogliere la muscolatura, o serravano stretti i legacci degli elmi e dei calzari, o soppesavano nelle mani saggiando l’impugnatura delle armi cui erano affidate le loro vite. “Volevi le venationes? Eccotele!” venne scosso a calci Ondo Peroni dal suo padrone, che gli tirò addosso senza troppi complimenti la daga spuntata e col filo scheggiato, e la rete tutta rattoppi e sfilacciature. Fu trascinato insieme a quella mista accozzaglia di uomini disgraziati sporchi e lividi sulle piattaforme elevatrici, e quando i grossi canapi e le funi ingrassate iniziarono a scricchiolare per la tensione, e il suolo prese a sollevarsi verso il cielo terso dell’arena e la luce abbagliante del sole, allora ebbe ragione di dove si trovava. Lo spettacolo che si propose ai suoi occhi estasiati era davvero di impareggiabile suggestione, ben più di quanto lui stesso avesse mai immaginato. Il mare in burrasca fece presto distinguere i suoi singoli marosi, fino a disciogliersi nel frastuono di una folla acclamante, stipata all’inverosimile lungo le gradinate del possente Anfiteatro Flavio. La cavea si mostrava come un tripudio di colori e di voci, fin su al maeniaum summum e all’ardito velarium, che richiudeva su se stesso quel mondo onirico, come un’enorme monade senza luogo e senza tempo, restituendone centuplicato il clamore e l’eccitazione. Solo il palco imperiale era sobrio e austero, guarnito di drappi purpurei e di fregi dorati. Ma tuttora vuoto. Le fiere, al lato opposto del vasto tabulato ligneo che ospitava gli attori, erano tenute a freno con fatica, e vennero rilasciate non appena il sollevatore raggiunse il livello del terreno e si bloccò con un sobbalzo secco. Tutto intorno la moltitudine gridava, impaziente nell’attesa del macello e dell’odore acre del sangue. Squilli di tromba si levarono alti. “Serrati, stiamo serrati!” facevano i suoi compagni di sventura, maggiormente i più vecchi ed esperti delle cose dell’arena. Le bestie intanto si avanzavano saltellando elastiche sulle zampe vigorose, mostrando la dentatura forte e filamenti di bava tra le mascelle, nella bocca rossa umida. Ondo Peroni capì che non poteva più tornare indietro, al suo fantasticare tra gli scaffali colmi della sua ricca biblioteca, e che sarebbe morto presto. E così fu. Non abile come i suoi compari, presto si ritrovò isolato dal gruppo che si muoveva compatto e attento, e inciampò nella sua stessa rete, che aveva gettato avventatamente verso una leonessa che lo stava braccando. Fece attempo a percepire le urla sguaiate di soddisfazione famelica provenienti dagli spalti, quindi si sentì in un attimo azzannato al collo indifeso, e sentì pure sprizzare il sangue dalla sua vena giugulare. Poi non seppe più nulla. Per fortuna, perché finì in una pozza di sangue orrenda, che si mischiò alla rena a formare una fanghiglia viscida e calda e appiccicosa, le sue membra a brandelli squartate da cento fauci fetide di felini enormi sbuffanti.

Poi, in rapida successione.

Ondo Peroni partecipò alla battaglia navale di Lepanto come rematore della Serenissima Repubblica di Venezia, venendo sventrato sulla tolda della seconda galeazza di destra dello schieramento cristiano da un colpo di scimitarra turca.

Attese a Parigi alle esecuzioni sommarie in piazza della ghigliottina, finendo poi sotto la di lei lama egli stesso con l’accusa di sabotaggio e tradimento della rivoluzione e della repubblica giacobine.

Concorse all’edificazione della piramide di Cheope in qualità di operaio, morendo orrendamente schiacciato sotto un blocco squadrato di granito del volume di sei volte sei cubiti quadrati franato lungo uno scivolo, alla quota di sei volte sei cubiti quadrati dal suolo.

Assistette allo sbarco di Hernan Cortez nelle Americhe, acclamandolo prima, finendo schiavo in seguito e quindi barbaramente trucidato dalle truppe del dio Quetzalcoatl che il suo popolo aveva da mille anni atteso.

Fu inquisito come eretico e arso vivo sulla pira del rogo, nonostante la sua pronta ritrattazione delle dottrine non ortodosse praticate, estortagli tramite scuoiamento e lo strappo di dodici denti, di cui tre canini, due incisivi superiori, quattro inferiori e tre molari.

Seguì Alessandro nella sua conquista dell’intero mondo allora conosciuto, bagnandosi al fiume Indo e morendo di sete e d’inedia nel deserto partico lungo la via del ritorno.

Ondo Peroni, appassionato cultore e tuttora insegnante emerito di storia antica e moderna presso la scuola media inferiore G. Parini di Muccia (Macerata), nato il giorno 8 marzo 1933, deceduto sette volte nella notte tra il 12 e il 13 settembre 2004 senza essere peraltro mai resuscitato, presentò al suo preside la mattina successiva domanda urgente di pensionamento.




E. J. BARRINGMORE, VENTUNESIMO DUCA DI ESSEX

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Singapore, 14 marzo 1897
Mio caro fratello Bertrand,
ti scrivo non appena mi è stato possibile, finalmente sul posto, e presa dimora nelle stanze assegnatemi. Siamo giunti col battello nel tardo pomeriggio di ieri. In vista del porto sono salito sulla tolda per assistere alle operazioni di avvicinamento e di attracco, manovre che mi hanno sempre affascinato. Lo sbuffare del vapore che va scemando per via dello spegnimento delle caldaie, lo scricchiolio delle gomene tese agli ormeggi, il calare della passerella sul molo, il fetore del porto, ovunque uguale nel mondo, mi producono sempre l’eccitazione del viaggio e, in qualche modo, dell’avventura. Al primo impatto, Singapore sembra una città davvero incredibile, e mi riempie di orgoglio patrio pensare che tutto ciò che vedo è opera dello spirito e dell’intraprendenza del nostro popolo. Ciò che per primo mi ha colpito è stato il formicolare incessante della gente lungo le strade, non solo, come era lecito attendersi, quelle adiacenti il porto, bensì in tutta la città, a testimonianza della alacrità e della vivacità dei commerci e degli affari che quotidianamente vi si svolgono. Questa mattina ho avuto modo di visitare il centro della città, anch’esso affollato di uomini e mercanzie di ogni tipo, che riempiono la vasta piazza del Governo di profumi esotici e spesso, per il nostro olfatto delicato, un poco stomachevoli e ributtanti. L’enorme edificio della Compagnia delle Indie, poi, che si trova di fronte al palazzo del governatore, è un brulicare ininterrotto di uomini d’affari europei (principalmente Britannici, ovviamente, ma anche molti olandesi e di svariate altre nazionalità) in abito chiaro e con la paglietta sulla testa per difendersi dai terribili raggi del sole, che qui sembra rimanere sullo zenit per un tempo impensabile, quasi ad arrestare le ore del giorno. La popolazione del luogo, invece, è piccola e scura, e va in giro malvestita e scalza, e tuttavia queste razze devono possedere una sorta di forza primordiale, quasi animalesca, a noi sconosciuta, poiché si caricano di fardelli enormi sulla schiena tozza e muscolosa, e trasportano agevolmente più persone coi loro pacchi e bagagli, trainando a braccia i loro caratteristici risciò, più veloci di quanto non farebbe una bestia da soma. Per questo pomeriggio stesso Mr. Marlowe, persona degnissima e cordiale come del resto sua moglie Rachel, mi ha già procurato un incontro con un certo Grossglove, che possiede un’attività di importazione di spezie e presso il quale dovrei poter ottenere un impiego nella contabilità; è già stato informato delle mie condizioni fisiche, e dunque mi ha riservato un ruolo piuttosto marginale e poco impegnativo, che mi permetterà di avere molto tempo a disposizione per visitare la città e i dintorni. Sono così ansioso di poter approfondire la mia conoscenza di questi luoghi esotici e lontani, di cui ho sempre sentito solo favoleggiare! Mi attendo molto da questo viaggio che mi sono risolto a intraprendere, devo concederlo, soprattutto grazie alla tua insistenza; non so bene perché, ma ho idea che ne verrà fuori un’esperienza importante per me, non deve trattarsi semplicemente di un periodo di convalescenza dalla mia malattia. Bene, staremo a vedere, per il momento basta così. Questa sera intanto saremo dai Terrey (sembra che sia una famiglia piuttosto facoltosa e influente, da queste parti; io per la verità in Inghilterra non ne avevo mai sentito parlare, devono aver fatto fortuna qui con il commercio della seta, così almeno dice Mr. Marlowe) e incontrerò buona parte della società. Pare che ci sarà il Governatore stesso. Ti invio un caro saluto. Il tuo affezionatissimo William

Parigi, 30 marzo 1897
Caro Willi,
ero certo sin dal principio che avrei letto nelle tue parole tanto entusiasmo. Questo viaggio non potrà che farti bene. Ti raccomando però di non affaticarti troppo, non dimenticare le raccomandazioni del dottor Sullivan e le sue preoccupazioni circa il clima afoso e umido, insalubre di quelle parti. Personalmente lo ricordo persino peggiore del nostro! Tuttavia confido che otterrai notevoli vantaggi per altri versi da questa esperienza nelle colonie, tu stesso già me ne dai conferma. Dunque, buon divertimento. Tuo Bert P.S. Ieri sera ho assistito a una splendida rappresentazione all’Opera. Davano una Lucia di Lammermoor un po’ eccentrica, direi. Non credo che a te sarebbe piaciuta molto. P.P.S. Conosco i Terrey, stanne alla larga; sono vecchi armatori di bassa lega, arricchitisi con traffici a dir poco sospetti.

Singapore, 12 aprile 1897
Mio caro Bert,
le tue informazioni circa i Terrey erano corrette, me lo ha confermato Mr. Marlowe stesso. Tuttavia credevo che fossero nostri connazionali, mentre ho saputo che sono Americani. D’altronde, se non mi fosse stato detto, l’avrei potuto certamente inferire dall’arredamento della loro abitazione, direi quantomeno sfarzoso se non di dubbio gusto. Tuttavia, salvo questo aspetto secondario, la serata è stata assolutamente piacevole e devo ammettere che essi hanno svolto più che onorevolmente il ruolo di padroni di casa, dimostrandosi estremamente cortesi e ospitali, se pur talvolta bizzarri nelle forme. Ma ciò deve dipendere dal ceto e dall’educazione, voglio dire dai costumi coi quali sono cresciuti, null’altro. Per questo mi sembra ingeneroso, o almeno precipitoso, il tuo commento su di essi, per quanto Mr. Marlowe, come ti ho detto, abbia espresso le tue stesse considerazioni. Ho l’impressione che a volte noi Britannici ci lasciamo condurre troppo da certe forme di pregiudizio. Nelle poche settimane da quando sono arrivato ho avuto modo di visitare gran parte dei siti di interesse che si trovano nella zona, principalmente di carattere naturalistico e nell’entroterra, o insediamenti indigeni tipici anche lungo la costa, dove sono venuto svariate volte a contatto con la popolazione locale, la quale è sempre sorridente e ospitale, e sorprendentemente generosa pur disponendo di così poco per se stessa e da offrire agli altri. Non c’è stata volta che siamo venuti via da un loro qualsiasi villaggio senza qualche omaggio. Questa è una osservazione che mi ha dato molto da riflettere. Spesso sono accompagnato in queste gite dalla signorina Emile, la figlia maggiore dei Terrey. Anche Tuan, per tornatre a quanto dicevo, il ragazzo del posto assegnatoci dai genitori di Emile e che ci guida in queste scorribande, mostra un viso sempre schietto e sereno, e sembra non conoscere che una malizia ingenua primitiva, mai scaltra né tantomeno malvagia, direi quasi giocosa. La città, di contro, mi sembra per la verità del tutto priva di ricchezze artistiche o storiche di qualche rilevanza. Vorrei parlarti invece di Emile, una ragazza preziosa di cui col tempo sto imparando ad apprezzare la gaiezza e la spensieratezza, caratteristiche che a tutta prima mi avevano fatto sospettare la consueta sciocca superficialità delle nostre coetanee; devo dire invece che mi sono presto ricreduto, giacché dietro tali evidenze si nasconde decisamente un insospettabile cuore d’oro e un’anima bella e pulita. Noto semmai come questi suoi atteggiamenti entusiastici siano a me per indole del tutto avulsi, ma non per questo li disapprovo né li trovo affatto disdicevoli, piuttosto mi sono nuovi, e in un certo qual senso mi affascinano. Emile è una ragazza molto carina. L’ho conosciuta la sera stessa del party dai Terrey, ed è nata quasi subito una relazione che Goethe avrebbe detto “di affinità elettiva”. Ha un visino particolare, fine e fanciullesco, e gli occhi chiari, quasi diafani. Stranamente, spicca un naso prominente piccolo ma lungo che alle prime viste sembra essere fuori luogo rispetto ai tratti delicati del volto. Poi, quando ci fai l’abitudine, invece ti piace così e non vedi quale altro potrebbe donarle e appartenerle di più. Anche il labbro inferiore è un po’ sporgente e quando lei parla si muove di un movimento elastico e accentuato rispetto alla bocca, così che le parole sembrano scivolare fuori su di esso per essere poi catapultate nell’aria una a una zampillando frivole come minuti spruzzi di giochi d’acqua. Per questa curiosa caratteristica, e per il fatto che la bocca si muove pochissimo, Emile quando si esprime in maniera seria sembra sempre imbronciata. Fortunatamente, accade così di rado! Parla costantemente con un filo di voce tanto che spesso, anche a causa di un mio evidente principio di sordità, fatico a capirla e devo ricostruire i concetti dai brandelli di frase che percepisco. Ha una tonalità bambinesca, così risulta molto buffa quando parla, anche perché spesso accompagna le sue frasi con strani movimenti delle mani e della testa. In una parola, Emile mi attrae tantissimo e vorrei vederla, un giorno, aprirmi totalmente il suo cuore. Un caro saluto. A presto William

Francoforte sul Meno, 2 maggio 1897
Caro Willi,
che piacere avere tue nuove! Confortanti nuove, direi… Qui nella vecchia Europa tutto procede bene, i miei affari vanno a gonfie vele, sebbene quasi quotidianamente esca fuori qualche grattacapo; ma con quelli ormai ho imparato a convivere. Domani dovrò incontrare due banchieri tedeschi, dai quali conto di ottenere un buon prestito a condizioni decisamente migliori di quanto non mi siano state offerte a Londra, così potrò finalmente avviare un secondo ramo delle mie attività, che ritengo molto promettente e pieno di prospettive per il futuro. Per il resto, lo scorso fine settimana sono stato a visitare la mamma a Barringmore Manor. Stanno tutti bene, come sempre; lei mi ha propinato le sue geremiadi e insiste perché prenda moglie, figurati; lo zio e il babbo ci riservano invece le consuete litanie circa la decadenza dei costumi e via discorrendo. Tuo Bert

Singapore, 18 maggio 1897
Carissimo Bertrand,
ieri purtroppo ho avuto una piccola ricaduta della mia malattia, tuttavia nulla di preoccupante. I signori Marlowe si sono affrettati a convocare un medico, il quale ci ha rassicurato tutti imponendomi semplicemente qualche giorno di riposo e prescrivendomi qualche semplice pastiglia per rilassarmi. Probabilmente devo aver avuto qualche giornata troppo convulsa per il mio fisico debole e ancora debilitato. Ultimamente infatti mi sono trattenuto in ufficio fin nel pomeriggio inoltrato per via di alcune scadenze urgenti, mentre la sera sono stato impegnato spesso in società. Qui ci si riunisce spesso, quasi tutti i giorni, e inizio a sentire un poco la mancanza di momenti privati da dedicare ai miei interessi e alle mie letture. D’altro canto, anche la compagnia non risulta così stimolante come poteva apparire inizialmente, e dopo i primi approcci e convenevoli, si finisce sempre per discutere di affari e di pettegolezzi: quelli provenienti dalla madrepatria, poi, sono i più ricercati. Sono poche le persone con le quali mi trovo in affinità. C’è Jeremy Fletcher, un giovane entomologo che è qui per studiare la fauna locale; queste zone sono ricche di specie bellissime ed estremamente rare di farfalle, un vero paradiso per gli studiosi di questa branca della zoologia; lui è un ragazzo di spirito e dalla fervida intelligenza. Poi ho rivisto con piacere Freddy Forgess, pensa, un mio vecchio collega del college, che studia le lingue orientali ed è impiegato presso la compagnia delle Indie; sta raccogliendo una serie di racconti dagli indigeni, che intende pubblicare in lingua originale al suo ritorno in patria col testo tradotto a fronte. Per il resto, però, direi che sono tutti più interessati alle variazioni del prezzo del tabacco e ai tempi sul miglio che riesce a staccare BlueBay ad Ascott, come riportano le pagine dei giornali sportivi. Ci si preoccupa e ci si entusiasma di cose a mio avviso poco più che insignificanti. In effetti la vita in questi luoghi mi sembra sempre caotica, sempre di rincorsa, con ritmi e cadenze ai quali non sono abituato. È vero che sono qui principalmente per la convalescenza della mia lunga malattia, ma a volte ho l’impressione che questo mio disagio risalga a ben prima, e la mia stanchezza non alla debilitazione della malattia, quanto a un morbo più subdolo e pericoloso che ci ha colpito dall’infanzia. È tempo ormai che ho preso a lavorare: vieppiù mi accorgo che il mondo della mia vecchia amata Inghilterra, delle sue tradizioni e della squisitezza dei suoi costumi, degli antichi fasti a cui tutta la nostra famiglia è legata e a cui ci ha introdotto, non esiste più. Qui tutto è vivo e veloce, commercia ed evolve, corre e reagisce secondo la logica del profitto e dell’efficienza, mentre vedo i Barringmore disperatamente avvinghiati a un tempo che, ahimè, non esiste più. Ma a ben guardare, caro Bertrand, mi accorgo anche che ero rimasto il solo a non averlo capito: tu sei negli affari da tempo e vivi una vita moderna e movimentata; lavori a Londra, e sei più di frequente a Parigi, la “ville lumière” dei pittori impressionisti, che non nella nostra avita dimora nella placida campagna inglese delle rassicuranti raffigurazioni di Constable e Turner, dove invece io ho sempre risieduto. Ti si è sempre dipinto come uno scapestrato e uno scavezzacollo irresponsabile, ma hai avuto invece i tuoi successi e i tuoi piaceri e, certamente, la tua serenità. Al contrario io, sempre diligente e timoroso e flemmatico, come per attenermi a precetti familiari immutabili impartitimi con puntiglioso rigore, mi sento poco meno che un pusillanime un po’ disadattato e pavido. Non so, magari si tratta di semplici impressioni fugaci ed estemporanee, ma sento una tale confusione in testa… Ho invece saputo dalla mamma del caro Reginald. Ti pregherei di inoltrargli i miei migliori auguri, e certamente un cordiale saluto anche a tutti i ragazzi del Club che ti capiterà di incontrare. Un abbraccio affettuoso a te e alla tua preziosa Lara. Tuo fratello William

Singapore, 19 maggio 1897
Bert,
un avvenimento incredibile! Ieri sera, appena spedita la tua lettera, ho incontrato all’ufficio postale lo zio Edward! Lui era in fila prima di me, e io ho riconosciuto il suo nome come mittente sulla busta che teneva in mano. Non lo vedevo da quando eravamo bambini! L’ho chiamato presentandomi, ma lui ha scartato di colpo dalla fila ed è fuggito via tra la folla senza volermi parlare. Aveva un viso così invecchiato, e triste, lo zio! Non ho potuto neanche chiedergli di nostro cugino Ferdinand… ma cosa succede? Cosa succede di noi, Bert? E dei Barringmore tutti, del nostro stesso sangue? Mi sembra di uscire di senno, non so più chi sono, sto perdendo tutti i miei riferimenti, e le mie certezze si sfaldano come l’argilla seccata dal sole! tuo Willy

Londra, 5 giugno 1897
Vedi William,
ho sempre pensato che si potrebbe dire la storia della nostra famiglia come la storia dell’ “e se poi?”. Tutto infatti si è sviluppato ed è proceduto nella logica della conservazione, del minuzioso, meschino mantenimento di un’esistenza cristallizzata nella sua mediocrità, anche se spesso la si è voluta far passare per superiore disdegnoso decoro. E purtroppo sono stato io stesso illustre esponente di questa filosofia di vita finché, al confronto con la realtà, il non compiuto in me del disegno della famiglia si è risolto in un tragico fallimento. Certo, perché la paura deve completarsi nell’insensibilità e purtroppo, acquisita la prima ma non avendo potuto farlo con la seconda, sono caduto rovinosamente (curiosamente, se avessi, viceversa, conquistato anche questa, in una qualsiasi sua forma, non mi sarei accorto di nulla). Ci sono tante sfaccettature, interpretazioni, direi, della teoria dell’ ”e se poi”; più o meno accentuate, più o meno radicali, smussate dagli eventi e dalle capacità individuali ma pur sempre, credo davvero senza eccezioni, della stessa matrice. Tutto nacque, scherzi del destino, da una storia di coraggio. Più facilmente lo si direbbe cretineria, ma ci furono un tempo e un livello sociale in cui non era necessariamente così, non proprio per tutti. La storia di coraggio cretino è quella del bisnonno Edward: io non l’ho mai conosciuto – neppure nostro nonno l’ha mai visto, se non quando era ancora in fasce – eppure mi sono da sempre ostinato a credermi simile a lui, forse proprio per il suo coraggio, che io vorrei aver avuto e che la prova della vita mi ha negato, e per, a sentire la nostra bisnonna, la sua bontà. Sono assolutamente persuaso che se lui non fosse così tragicamente morto, lasciando una famiglia sola, io sarei un altro uomo, o meglio sarei già da trent’anni ciò a cui il mio lento risalire la china mi sta conducendo solo adesso con un processo estremamente doloroso. Fu così che dalla storia di un uomo coraggioso si passò a quella di una donna terrorizzata, e a quella di due complete generazioni pavide e anacronistiche. Il bisnonno Edward marinava la scuola, e con la bisnonna se ne andavano bellamente al parco e agli spettacoli di teatro. Erano spensierati, ricchi e felici, e tutti e due un po’ pazzerelli. E innamorati. Però quando ci fu da servire il suo luminoso Sovrano in un’impresa piena di rischi, il duca Edward non volle sconti, rifiutò l’aiuto di alti funzionari che gli avrebbero consentito, quella conquista, di conseguirla da dietro una scrivania, e andò dove il destino maledetto lo attendeva. Non so come andò nella realtà, ma la scena della ricezione del telegramma da parte della bisnonna me la figuro così: la zia Elisabeth nella culla, in una grande stanza con alti specchi e tappeti pregiati, e un camino enorme acceso con su un grosso orologio stile impero. Lo zio Alfred ai primi esercizi sul pianoforte, il nonno seduto sul tappeto, coi capelli dai boccoli d’oro e un abitino di panno a balze e merletti, a inquadrare in ordine preciso i suoi soldatini di metallo laccato dal viso diafano e dallo sguardo allampanato. Arriva, la fantesca, con la lettera sul piattino d’argento sfavillante alla luce del lampadario dalle mille gocce di cristallo, e si ritira immediatamente. Letto il terribile contenuto, la giovane duchessa Margaret rimane impietrita. Per un tempo infinito. Non una parola, non una lacrima, non un lamento nel ripercorrere tutto il loro felice passato, tutti i loro sogni e i progetti futuri. Intanto i bambini giocano, ignari, mentre lei è la donna più sola al mondo. E così rimarrà per tutta la sua esistenza: sarà il tempo per cui tutti noi rimarremo soli e impietriti, col mondo che ci scorre davanti. Allora, non potendolo inseguire, lo eviteremo. Con cocciuta ostinazione noi tutti rimarremo aggrappati a quella stanza, per conservare i nostri diritti di matrimonio e di nascita usurpatici dal destino beffardo. Manterremo la nostra dignità di fronte all’aiuto di commiserazione dei fratelli del nobile Edward, tutti ricchi e potenti, tutti affermati agiati professionisti. Essi cederanno, assieme alle loro famiglie, alle volgari lusinghe della modernità, garantiti dalle solide posizioni sociali che hanno facilmente mantenute. Ma noi non avremo più nessuno che ci possa guidare nel cammino della vita con passo fermo, nessuno che conduca in società la sua elegante sposa, nessuno che cresca sani e sicuri i suoi ragazzi. A noi non rimane che una mazza da cricket come traccia degli studi del nostro campione negli esclusivi collegi di Edimburgo. E il fascino di questo decadente, splendido isolazionismo, colpirà il remissivo giovane maestro d’equitazione, lusingato da tanto nobile interessamento da parte della zia Litzie e osannato dal popolo come vincitore di chissà quale ambito riconoscimento. Così anche lui sarà costretto nel diabolico meccanismo, con i tristi risultati che ben sai, fino alla sua manifesta pazzia e alla pietosa prematura scomparsa del caro cugino Desmond. Né verrà risparmiata la cara docile nonna Victoria. Ma l’astio e la malignità abbattutesi sulla famiglia fagociteranno ben presto anche lei, malgrado la semplicità e la purezza delle sue origini, malgrado le iniziali tenerezze verso i suoi bambini, sempre poche rispetto a quelle che avrebbe voluto riservare loro, ma sempre troppe rispetto a quanto fosse ritenuto conveniente. E vieppiù sarà lieta di farne parte la ricca Paula, in qualità di consorte del primogenito zio Alfred, ereditiera ma – pur senza colpa - di sfortunata origine irlandese, con non nascoste velleità di salire tutti i gradini della scala sociale. Ella potrà dilettarsi nel canto e nella poesia, nelle letture originali degli esclusivi autori francesi sulle panchine discrete del giardino all’italiana nelle terre di proprietà di suo marito. Svolgerà per decenni a pieno titolo il suo ruolo di Segretaria Generale delle Suffragette e frequenterà tutti i salotti più mondani, e vanterà un figlio governatore nel Borneo e un altro baccelliere generale. Solo il loro primogenito, il primo in ordine di successione dei Barringmore, della nobile antica onorata schiatta dei Barringmore, il ventunesimo duca di Essex, solo il nostro caro zio Eddy, che tu hai incontrato accidentalmente, non deve aver retto il peso delle aspettative che tutti riponevano su di lui sin da bambino, investito come colui il quale avrebbe risollevato le sorti della famiglia dalle sferzate di una malasorte sciagurata; solo lui, non ha potuto. Si innamorò di una ballerina, e lei di lui. Era brava e onesta, ma suo padre la disse sgualdrina, senza che ciò fosse affatto vero, e per questa orrenda non-colpa lo zio Edward fu scacciato di casa, e mai più riaccolto dai suoi stessi genitori. Il resto è tutta conseguenza, ma non vale nulla, Willy. Lo zio scappò via lontano, lasciando sua moglie e due piccole creature, dove nessuno avrebbe dovuto raggiungerlo. Scappò via dai Barringmore. Ma il richiamo di un ricordo paterno infantile fu troppo forte, e Ferdinand partì a lui. Io so come è finita la vicenda, fratello mio, ma ho dato la mia parola di non rivelarlo mai. E sarà forse la prima volta nella mia dissennata, qualunquista, volgare, borghese, moderna vita che manterrò tale parola. E pure, ancora per molto, noi tutti coveremo nel nostro cuore ferito un’ansia di rivincita sul mondo intero, sui vecchi parenti che hanno svogliatamente sopportato il nostro dolore, sui nuovi ricchi borghesi che tutto possono acquistare salvo la nostra squisita raffinatezza.




IL FIAMMIFERO

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Questa è la storia singolare di un grosso fiammifero. Di quelli grezzi, legnosi, di legno d’abete bianco e venato, dalle fibre grosse come fili di canapa. In verità di singolare ha ben poco, la vita di questo specifico fiammifero, rispetto almeno a quella dei suoi consimili. Quello che è particolare, semmai, è la storia di ogni singolo individuo di questa genia, che sono appunto tutte più o meno identiche l’una all’altra. Nascono tutti da un tronco enorme, dal quale se ne ricavano centinaia di migliaia, forse milioni persino, tutti con lo stesso profilo, sputati da un macchinario adibito che li trincia dapprima in lunghissimi spaghetti come un gigantesco tritacarne, e poi tagliati da lame rapide e precise che sibilano come insetti. Ma questo è solo l’ultimo atto della lunga genesi del nostro fiammifero. Anzi, no, ci manca ancora la rivestitura della capocchia con lo zolfo, che si ottiene immergendoli a mazzetti in una grossa cisterna piena di colla di pesce, e poi subito dopo in una con lo zolfo quasi a temperatura di fusione. Questo avviene però quando già il profumo di resina se ne è andato via da un pezzo, quando i camion hanno mosso le loro ruote possenti dai margini del bosco alla segheria del primo frazionamento grossolano, quello che riduce il tronco in segmenti di tre metri ciascuno e lo priva della corteccia secca e baffuta di licheni. Prima di ciò infatti, il nostro fiammifero apparteneva a un albero alto più di venti metri, uno splendido abete verde di aghi e ricco di fronde, placido ma possente, saldamente piantato ai margini di una radura con le sue radici nodose che gonfiavano la terra tutto intorno per metri, enormi vene pulsanti e suggenti linfa vitale. Apparteneva a un suo ramo secondario, a essere sinceri, non al tronco, il che tuttavia non ne sminuisce affatto l’utilità e le funzionalità, né la sua dignità di fiammifero in senso ontologico ne risulta in qualche modo lesa. Questo, checché ne possano pensare i suoi colleghi di più alto rango, provenienti dal tronco o dai rami principali, e che per tale ragione si danno tante ingiustificate arie di superiore decoro. Ebbene, passò giorni migliori, senza dubbio, il Nostro, incastonato nel suo alveo protettore di corteccia e resina, stretto coeso a migliaia e migliaia di suoi fratelli consimili, fuso a essi e da essi indistinto, come indistinto e identico sarà il destino di loro tutti. Allora tutto era diverso, si ospitavano fringuelli frivoli canterini, e raffinati usignoli di ben diversa sostanza e spessore vocale. Poi c’erano scoiattoli che scorrazzavano rapidi e sicuri, saltabeccando tra i rami e avvinghiandosi a essi con le zampine pelose solide. Per non dire dei licheni floridi e dei muschi luogo il tronco, e della flora sottostante, funghi turgidi e erbette e agrifogli che godevano protezione e calore dalle sue fronde ombrose. E c’erano il sole, il vento, la pioggia, l’aria, il freddo intenso e i tepori del mezzogiorno in una rotazione di interscambio eterna; e gli odori sapidi densi e i rumori del bosco, lontani vagiti timidi, voci ancestrali del Creato provenienti dal niente e dal tutto. Adesso invece è costretto in una scatolina anonima di cartone, abbandonata sulla mensola accanto alla macchina del gas, stipato insieme ai suoi colleghi di sventura senza aria e senza respiro, tremando ogni volta che essa viene aperta per chi tra di loro sarà il prescelto, chi sarà immolato, questa tornata, nella loro particolare roulette russa. E di giorno in giorno vedendosi lo spazio farsi più largo, e per ciò temendo sempre più l’avvicinarsi del proprio momento, lo scoccare della propria ora. Nel frattempo, però, finché dura, il nostro fiammifero è parte integrante della casa e della famiglia che lo ospitano, ne condivide la quotidianità invariabile accompagnata dalle angosce insensate e inutili, da gioie misere e fugaci, e più spesso ne riscontra le sue banalità e le sue indolenze. Giacché si trova in cucina, una stanza calda modestamente arredata, con piastrelle logore sui muri e pensili unti di grasso e di vapori alle pareti, con la tinta sul soffitto ingiallita ombrata di fuliggine e di polvere, il mobilio di metallo smaltato, vecchio e decoroso; triste e però accogliente e materna, utero primigenio e sacca amniotica della famiglia. Qui è il centro attivo e pulsante della casa, dove la famiglia si riunisce la sera per i pasti sobri che la consolidano, al tepore del forno appena spento e sotto la luce soffusa della vecchia lampada al neon nelle serate d’inverno gelido, quando fuori è freddo umido e buio pesto. Lui partecipa di ogni discussione e assiste a gran parte dello svolgersi della vita familiare. Vede crescere i bambini, e farsi adulti, nel loro sviluppo quotidianamente impercettibile e pure evidente nelle stagioni; li vede dapprima puttini gioiosi, incerti sulle gambette corte grasse e tozze, levanti le braccia alla mamma per essere accolti al suo seno; poi più spediti fiorire nello slancio dell’altezza sulle gambe fattesi gracili e ossute, alzarsi sui piedi a raggiungere il barattolo dei biscotti fatti in casa, gialli di uovo, friabili e dorati dal fuoco del forno; e ancora ne segue i sogni infantili e le aspettative di gloria futura, e le crisi dell’adolescenza; è testimone dei loro alterchi con i genitori preoccupati, e degli scambi notturni di ansie dei genitori preoccupati, una volta mentre i piccoli erano già a letto, adesso mentre i ragazzi sono fuori con gli amici sino a tarda ora. Vede incanutirsi il padrone di casa, incurvarsi per le fatiche e le umiliazioni del duro mestiere di lavoratore pendolare, tenace e stanco. Lo vede rincasare bisognoso di pace e di focolare domestico, con gli abiti strapazzati e sgualciti pregni di smog e del sudore acre di carne umana sofferente maltrattata. Vede cucire sua moglie nei pomeriggi solitari silenziosi, accosto alla finestra per cogliere fino all’ultimo barlume il chiarore del sole morente, con indosso maglie di lana lise e usurate sul suo corpo gracile e avvizzito della vecchiaia che si affaccia. Piegata in due sul suo lavoro dalle maternità passate e dal duro mestiere di madre, e dalla vista che si fa bassa e debole, e ne spegne gli occhi affaticati. L’avvento degli accendigas elettrici è stato per lui e i suoi fratelli una vera manna dal cielo, come per noi esseri umani la scoperta della penicillina, avendo permesso di allungare a dismisura la speranza di vita di un fiammifero di media qualità assegnato a una famiglia della media borghesia. Solo questa stupenda innovazione gli ha concesso di assistere alle vicende della famiglia che lo ospita, la sua famiglia, per così tanto tempo. Ma per quanto lontano, per quanto ancora procrastinabile, giorno verrà che dalle stesse mani dei suoi padroni il nostro fiammifero seguirà la sua triste sorte, subirà il colpo ferale, troverà il suo compimento. Tutto allora accadrà in un attimo. Mani ferme impietose lo sceglieranno tra tanti senza attenzione o motivo definito, decise lo sfregheranno sul bordo assassino di carta vetrata della scatola, e il suo destino sarà compiuto nel breve volgere di pochi istanti. Purché, almeno, gli sia concessa una fine eroica e dignitosa, che faccia di lui un esempio e un modello, gli consenta insomma di svolgere al meglio e in piena responsabilità il ruolo per cui è stato designato. Non una fiammella incerta e debole, tarda all’accensione, reattiva solo a un successivo ripetersi del gesto, in seguito a vaghe sterili scintille, ferite inutili e indecorose, e rotture parziali della sua calotta sferica di zolfo grigio, inferte da una carta vecchia e lisa perché usurata da troppe esecuzioni precedenti. Ma una vampa istantanea, sicura e definita, prodiga e netta, larga, e alta, dai contorni perfetti e dalle forme archetipiche. Così ha diritto di vedere la sua propria fine. Sia fermo e impavido il polso, rapido e preciso, aguzzi e graffianti gli sfridi di vetro, se debbano davvero condurgli la Morte.




LA CACCIA

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PROLOGO

Il vento gelido tirava forte, quella mattina, e le raffiche con-tinue sparavano i fiocchi di neve ghiacciata sul viso, come insolenti punture di spillo. Gli abeti si misuravano in contra-sti di rami e fronde, quando con sinistri scricchiolii, quando in un vorticoso frusciare, accordi di musica adeguati alla tragicità del loro balletto di guerra. E davano voce alla tempesta stessa, insieme alle ripide gole e ai selvaggi bastioni di roccia, fornendole stretti passaggi e disparati percorsi, come un enorme strumento a fiato che la natura ha regalato al mondo e che il solo soffio vigoroso di Eolo può suonare. Erano pochi gli avventurosi che non avevano trasgredito al loro impegno, assecondando le bizze delle intemperie piut-tosto che arrendersi ai confortevoli giacigli a fondo valle. Qualcuno era salito con disappunto sui campi da sci, le aspettative di imbrunire il volto, almeno per quel giorno, deluse. Altri erano indispettiti dai modi brutali con i quali il vento maltrattava le loro eleganti tute dai colori vivaci, mettendone a dura prova la tenuta al freddo. I più temerari erano invece persino eccitati per la giornata, giacché il manto di neve fresca che era copiosamente caduta durante tutta la notte consentiva di provare nuove sensazioni lungo la disce-sa, e con più ampi spazi a disposizione per prodursi in evoluzioni dallo stile impeccabile. Niente di tutto questo preoccupava Remigio, né lo aveva spinto quella mattina a metter gli sci in spalla verso la cabi-novia che portava in quota. Non si era mai interessato della colorazione delle sue gote, se non quando questa accompa-gnava le mescite di vino nei convivi serali tra vecchi amici valligiani. Aveva sempre lasciato che il sole, la pioggia, il vento, decidessero loro come andava trattato il suo viso, e non aveva mai avuto a che dire sulle loro scelte. Era questo, piuttosto, che si adattava di volta in volta a godere di tiepide carezze, di puri e freschi lavacri o a soffrire sferzanti battute. Allo stesso modo l’intero suo corpo si conformava ai voleri degli agenti atmosferici, non temendo né il freddo né il caldo, semplicemente vivendoli. La sua vecchia maglia da sci e la giubba in tessuto impermeabile facevano ancora egre-giamente il loro dovere, tanto più che quello non era certo il freddo più intenso che gli era capitato di dover sopportare. L’ebbrezza della discesa nella neve fresca, poi, l’aveva pro-vata per la prima volta intorno ai quattro anni di età, quando il padre gli aveva messo ai piedi quegli scietti ricavati da un ramo d’abete, e innumerevoli altre volte ancora prima che si potesse aver idea di una pista battuta dai gatti delle nevi. A riguardo del suo stile di sciata, infine, non ricordava che i giornali gli avessero mai mosso critiche, nemmeno quando a Garmisch aveva perso l’oro olimpico per pochi decimi di secondo scendendo con un polso fratturato. Quella mattina, come di tanto in tanto capitava, era rientrato presto dal suo consueto giro per il pane e il latte fresco, aveva messo i guanti, preso gli occhialoni da neve e infilato gli scarponi. “Vado su a dare un’occhiata”, si era congedato dalla signora Piera, tutta intenta a lavorare all’uncinetto per il piccolo Matteo, il loro primo pronipote che sarebbe arrivato il mese prossimo. La moglie aveva alzato un istante gli occhi verso la finestra, poi gli aveva dedicato uno sguardo di affettuoso rimprovero, come a dire “mattacchione!”, ma in realtà era felice quando lo vedeva uscire per andare sui campi. Remigio era solo nella cabina, una condizione davvero inusuale, quantomeno nei mesi invernali, da quando il fenomeno dello sci di massa si era diffuso anche lì in valle. Aveva appoggiato i suoi attrezzi al sostegno centrale e, sistematosi in testa il berretto di lana, lasciava lo sguardo vagare distratto nel sottobosco e si sentiva cullare dalle lente oscillazioni della cabina. Se pure non dura che pochi minuti, il viaggio su un impianto di risalita in condizioni di solitudi-ne è sorprendentemente evocativo. Nessuno può sfuggire a quella sorta di cosciente oblio che invariabilmente ci conduce nel profondo di noi stessi, rievoca i ricordi più remoti e ci mette terribilmente a nudo di fronte a noi, indifesi rispetto alle paure più recondite. Chiusi in una bolla di vetro sospesa nell’aria, tutti i rumori ci giungono ovattati, l’ambiente diviene irreale e indistinto, il correre della fune di traino, con il suo sibilo leggero e uniforme, ci riconduce indietro nel tempo.

CAPITOLO I

“Grosson”, tuonò il capitano Blasi dalla finestra dell’ufficio di comando, “vieni su!”. Caricata sul camion la cassetta che aveva tra le mani - ogni martedì venivano inviati al fronte i rifornimenti di munizioni - Remigio attraversò il largo piazzale con passo svelto, rassettando alla meglio l’uniforme e tirando via sommaria-mente il grasso dalle mani con uno straccio non meno lercio di quel che avrebbe dovuto pulire. Il capitano lo aspettava in cima alle scale, visibilmente teso, e si affrettò a dirgli sottovoce che il generale in persona aveva chiesto di lui per una questione di estrema riservatezza. L’inattesa visita del gene-rale Arrigoni, giunto in tarda mattinata sulla sua vettura tirata a lucido e accompagnato da uno stuolo di attendenti, aveva messo tutti in agitazione ma nessuno, al di là dell’iniziale curiosità, aveva poi pensato che la faccenda potesse riguardarlo da vicino. Probabilmente era venuto per valutare di persona l’entità delle scorte presenti nel magaz-zino, decisamente il più grande della zona, in vista della massiccia controffensiva che pareva i tedeschi stessero preparando da tempo su quel fronte. Cosa potesse volere proprio da lui, invece, Remigio non aveva assolutamente idea. Le mansioni che gli erano state assegnate fino a quel giorno non avevano nulla di particolare e, per quanto fosse da tutti ritenuto un buon soldato, non si era certo mai distinto per una iniziativa coraggiosa in battaglia o per azioni in qualche modo meritevoli. D’altronde lui, che già di per sé non aveva mai sentito sua quella guerra, aveva rinunciato del tutto a capire da quel repentino volta-faccia dell’8 settembre, a causa del quale adesso riforniva di armamenti gli Americani piuttosto che i Tedeschi. Fu introdotto dal capitano Blasi. A un breve cenno del ge-nerale questi si ritirò immediatamente producendosi in un goffo saluto che, nell’imbarazzo del momento, assunse per la verità più l’aspetto di un impacciato inchino. “Primo nella Coppa Medaglie d’Oro al Sestriere, vincitore della discesa libera di Wengen e delle prove di combinata alpina del monte Cristallo in Cortina d’Ampezzo nel 1931, campione olimpionico di discesa in Lake Placid nel 1932, primo nelle prove di Salbach, Tre Funivie, monte Cevedale, Gran Premio di Courmayer nell’anno 1933...” Il generale Arrigoni aveva preso a snocciolargli i suoi suc-cessi di maggior prestigio scorrendo un foglio dattiloscritto, gettandogli di tanto in tanto una veloce occhiata di sopra i suoi occhiali per la lettura, ma non era chiaro dove volesse andare a parare. Era un ometto mingherlino, almeno così sembrava dietro la grossa scrivania in legno di quercia riordinatagli di gran fretta dall’attendente, dai lineamenti del volto ossuti e con un paio di baffoni bianchissimi che crea-vano un buffo contrasto con il cranio completamente calvo. “…vincitore delle prove di discesa obbligata in Livrio, primo classificato nel Trofeo Cervino, secondo classificato - ahi, ahi - nella Olimpiade di Garmisch-Partenkirchen nel 1936…” L’elenco si arrestava bruscamente all’anno 1940, a causa dello stesso motivo per il quale Remigio si trovava in quel momento alla caserma ‘Cadorna’ piuttosto che nella sua casa di Arabba. “Grosson, lei è davvero un fenomeno!” proseguì con aria di compiacimento il generale al termine della lettura. “Ma ora segga, e non stia in imbarazzo. Debbo parlarle e il tempo stringe” disse poi in tono cortese ma deciso. La questione era questa: poche settimane addietro, presso il comando supremo delle truppe alleate a Londra, era stato trafugato un incartamento segretissimo nel quale erano descritte le strategie di un attacco in forze per la primavera prossima. Si sarebbe trattato di una manovra in territorio francese senza precedenti in quanto a dispiegamento di uomini e di mezzi e, ci si auspicava, avrebbe assestato il colpo definitivo alle armate tedesche, già in difficoltà sul fronte russo. Tra l’altro, venivano indicati con esattezza il luogo dove sarebbe avvenuto lo sbarco e i piani di penetrazione nel territorio per le successive settimane. Il documento era stato sottratto da una spia tedesca di cui già da tempo si sospettava. Una rincorsa frenetica e attenti controlli avevano potuto impedire che esso attraversasse la Manica cadendo direttamente in mani nemiche, ma non era stato possibile recuperarlo. Attraverso un articolato sistema di protezione, probabilmente passando addirittura per l’Irlanda e il Portogallo, il plico contenente i piani alleati si trovava ora a Lucerna, nella neutrale Svizzera, a poca distanza dal vecchio confine austriaco e quindi prossimo alla sua destinazione. Il servizio di spionaggio alleato era in grado di controllare tutti i movimenti nella zona, difficilmente per le vie ordinarie l’oggetto del contendere avrebbe potuto compiere l'ultimo passo e dunque si sospettava che i tedeschi avessero in mente di spedirlo in qualche modo attraverso le montagne, per passaggi impervi e inaccessibili ai più, specie in pieno inverno. La presenza a Zurigo del famoso campione di sci austriaco Helmut Tafelmaier, fortuitamente incontrato e riconosciuto da un agente inglese, aveva chiuso il cerchio.

Non appena concluso il colloquio con il generale Arrigoni, che aveva sancito il suo immediato passaggio dall’ottava compagnia di stanza a Napoli al reparto di spionaggio, Remigio fu preso in consegna dal tenente Ravoli, incaricato di organizzare la sua missione fino al confine con la Svizzera: di lì in poi, il novello agente segreto avrebbe dovuto cavarsela da solo e sarebbe stato contattato quando più opportuno, e con modalità a lui ignote. Quello che aveva appreso dal generale era quanto doveva sapere, per il momento, e la sua destinazione era Andermatt, nota località di vacanze inver-nali non lontana da Lucerna. Il tenente lo portò con sé in una stanzetta al pianterreno, gli consegnò degli abiti civili che Remigio dovette indossare, poi, cambiatosi anch’egli, lo invitò a seguirlo nel piazzale. Salirono su una camionetta, nella quale avevano già preso posto altri due militari, anch’essi vestiti in borghese, e si diressero di gran carriera verso il porto. Durante il tragitto Remigio poté scrivere alla moglie poche righe che, senza apparente imbarazzo, Ravoli controllò non contenessero alcuna indicazione significativa circa il motivo del suo viaggio. D’altra parte lui stesso, per evitare di allarmarla, le accennava a un ingente quantitativo di munizioni provenienti dal sud, da smistare lungo tutto il fronte: un lavoro di almeno un paio di settimane. Appena giunti si imbarcarono su una motosilurante americana che attendeva a macchine già pronte, e che prese immediatamente il largo puntando alla massima velocità verso nord. Tutto era accaduto in gran fretta, come se fosse stato pre-stabilito nei minimi dettagli e se ci fossero rigidi orari da rispettare. In piena notte sarebbero stati sbarcati lungo la riviera ligure, dove erano ad attenderli alcuni partigiani che avrebbero dato loro ospitalità e li avrebbero poi condotti a Genova. Rimasto solo sulla tolda della nave, poggiato coi gomiti al parapetto di prua, finalmente Remigio ebbe modo di riflettere su quanto gli fosse accaduto durante le concitate ore pre-cedenti, e su cosa lo attendesse nel prossimo futuro. Respirava la brezza profumata di mare, dilatando le narici a quell’inconsueto odore della natura, e l’acqua vaporizzata del fendere le onde da parte della chiglia gli spruzzava il viso di salsedine, depositandola sulle ciglia socchiuse e umettandone le labbra per fargliene assaporare il gusto anch’esso sconosciuto. Lontano, il crepuscolo incipiente dipingeva sulla superficie increspata le tinte scarlatte del sole morente, disegnando un ventaglio di fuoco rilucente. Quel paesaggio ignoto lo stava riconducendo ai suoi amati monti, così come le circostanze insolite della guerra, una volta strappatolo ai suoi luoghi, adesso sembravano nuovamente consegnarglieli; ma forse, rifletteva Remigio, non sarebbe stato un bene. Tutto aveva così senso, egli lo capiva perfettamente, eppure perché lui? Perché proprio a lui un compito così gravoso, se davvero tale doveva essere secondo quanto illustratogli dal generale Arrigoni? Cosa c’entravano le montagne con questa storia? Perché tirarvele dentro anch’esse? Cosa c’entravano le vette innevate, i picchi solitari, i boschi silenti, le valli verdi di smeraldo protette e protettive? Almeno loro, che le lasciassero fuori. E invece il destino beffardo gliele riconsegnava, certamente, ma non pure e intatte, piuttosto macchiate della guerra anch’esse; nella guerra gliele rendeva, contaminate come lui lo era stato. La notte era calata, il nero fitto e indistinto circondava la nave; sebbene inquieto e tuttora desto, Remigio si forzò a scendere in cabina per riposare qualche ora, e finalmente fu rapito dal sonno ristoratore. I piani si svolsero senza intoppi, e la mattina del giorno successivo Remigio si ritrovò in un’angusta camera di una pensione nel centro del capoluogo ligure. Il tenente gli diede modo di prendersi un bagno, un lusso di non poco conto data la situazione, e seguì di persona il lavoro del barbiere e della manicure. Poi Remigio dovette indossare un vestito grigio di lana pettinata, infilò un cappotto di raffinata fattura e si recò alla stazione ferroviaria con il tenente e gli altri due militari. Presero il primo treno per Milano. Di lì cambiarono, e sali-rono sull’accelerato della sera diretto in Svizzera. Questa volta Remigio era in una cabina singola di prima classe, nella quale aveva trovato una grossa valigia e, disposti sul portapacchi, un ottimo paio di sci e una borsa con gli scarponi. Dai documenti lasciati sul tavolino aveva anche appreso il suo nuovo nome, quello di un giovanotto dell’aristocrazia milanese in viaggio per una piacevole villeggiatura sulle montagne svizzere. Dover recitare questa parte era ciò che maggiormente lo preoccupava: lui era un ragazzo di montagna, i suoi studi non si erano protratti oltre l’età dell’adolescenza e probabil-mente molti atteggiamenti che gli erano abituali non si addicevano a una persona di elevata classe sociale. Era pur vero che le possibilità offertegli dall’essere un campione dello sci gli avevano fatto conoscere, in una certa misura, il mondo, e gli avevano insegnato come comportarsi in diverse situazio-ni che altrimenti non gli sarebbe mai accaduto di dover fronteggiare; era stato spesso ospite presso alberghi di lusso nelle più rinomate località sciistiche di tutta l’Europa, molti personaggi di prestigio l’avevano invitato al loro tavolo o si erano soffermati a conversare con lui, più di una volta aveva preso parte a incontri pubblici nei quali aveva dovuto co-munque esporsi. Inoltre parlava correntemente il tedesco e nei suoi soggiorni all’estero aveva avuto modo di imparare anche un po’ di francese. Tutto questo però, sebbene fossero ormai quasi tre anni che l’attività agonistica era sospesa per via della guerra, gli aveva anche procurato una certa notorietà e il timore di essere riconosciuto, specie in quei luoghi e in un ambiente di sport invernale, non era certo infondato: d’altronde, come gli aveva raccontato il generale, non era forse proprio per questo motivo che si era venuti a sapere della presenza in zona di Tafelmaier? Con Helmut, sì, si sarebbero riconosciuti all’istante. Si erano incontrati decine di volte sulle piste da sci, e altrettante nelle taverne dove ci si ritrovava la sera, dopo le gare. Non erano mai stati amici, la loro rivalità non lo avrebbe consentito, e tuttavia non di rado avevano bevuto un buon boccale di birra insieme commentando le prove del giorno. Nessuno dei due si esponeva con evidenza, come per timore di rivelare all’altro qualche segreto, e così quegli scambi di opinione scivolavano via sempre un po’ formali e imbarazzati. Comunque non si odiavano, se non forse in senso sportivo, e quell’imbarazzo era dovuto a una sincera stima reciproca. Nessuno avrebbe potuto dire, se non per motivi di campanile o di simpatia personale, chi dei due fosse effettivamente il migliore: a volte prevaleva l’uno, a volte l’altro, ma raramente con distacchi netti e mai in maniera definitiva. A Remigio bruciava ancora la sconfitta rimediata nell’ultima olimpiade. Era rimasto in vantaggio per quasi tutta la prova poi, avendo perso l’equilibrio un solo istante, si era appoggiato di peso sul braccio infortunato per evitare la caduta. Aveva provato un dolore lancinante e quell’attimo di incertezza gli era stato fatale e gli era costato la vittoria. Ecco, in quell’occasione Tafelmaier non gli era parso propriamente corretto, poiché aveva finto di non sapere che lui era sceso in pista con un polso fratturato, malgrado l’evidente fasciatura rigida con la quale girava in quei giorni: ma d’altronde, quale vincitore olimpico si preoccupa degli sconfitti nel momento del suo massimo trionfo? Tutti questi pensieri gli ronzavano per la testa mentre, in una sorta di dormiveglia, vedeva scorrere veloci e lontane tante piccole luci fuori dal finestrino della vettura. A un certo momento il treno cominciò a rallentare e un istante dopo sentì bussare con un colpo secco alla porta dello scompartimento. Il tenente Ravoli era fermo lì fuori e, quando Remigio ebbe aperto, lo salutò appena con uno sguardo e si diresse verso l’uscita del vagone seguito dai due aiutanti. Erano a Chiasso, l’ultima fermata del treno prima di entrare in Svizzera. L’avventura cominciava davvero.

CAPITOLO II

“Andermatt, stazione di Andermatt”, ripeteva l’impiegato delle ferrovie alternativamente in italiano e in tedesco. Re-migio si scosse dal torpore nel quale era caduto durante tutta la notte, raccolse rapidamente le sue cose e uscì dallo scom-partimento. Il treno stava rallentando già da un po’ e qualche istante dopo entrò in stazione sbuffando. Le prime luci dell’alba mostravano un cielo terso e di un azzurro intenso, preannunciando una giornata di freddo pungente. D’altronde quell’inverno si era dimostrato particolarmente rigido anche in pianura e certo in Svizzera non sarebbe stato da meno. Sulla banchina c’era qualche sparuto gruppetto di persone in attesa di amici o di un proprio caro. Tutti indossavano cappotti di pelliccia e tenevano il bavero rialzato fin sopra la bocca, o erano imbacuccati in pesanti sciarpe e cappelli. Altri erano alle finestre della piccola sala d’attesa e facevano capolino da dietro i vetri appannati da una calda stufa a carbone sistemata all’interno. Alcuni facchini uscirono di corsa distribuendosi lungo il binario, nelle loro strette uniformi grigio-topo e con i guanti di lana tagliati alle dita. Remigio scese dal treno e fu avvicinato da uno di loro che si caricò dei suoi bagagli e, non appena fuori dalla stazione, gli chiamò una slitta. Durante il viaggio verso l’albergo, che si trovava dalla parte opposta del paese rispetto alla stazione, il vetturino canticchiava allegramente una vecchia canzonetta e lui osservava il suo alito disperdersi velocemente nell’aria frizzante. Era già stato ad Andermatt alcuni anni prima, in occasione di una gara, e nulla gli sembrava cambiato da allora. Riconobbe il posto dove aveva alloggiato, la fontana della piazza, anche questa volta con le quattro bocchette tutte ghiacciate, il panificio dove comprava quegli ottimi krapfen ricolmi di crema calda, e di colpo si sorprese con un groppo in gola e gli occhi lucidi di nostalgia. Quanto era cambiata la sua vita dall’inizio di quella male-detta guerra! Era stato privato della libertà, il bene più pre-zioso che potesse esserci. Era stato rinchiuso in una caserma, lui che era cresciuto tra verdi prati e boschi dai profumi intensi. Era stato allontanato dalla moglie, nemmeno il tempo di scoprire una nuova vita da freschi sposi, e mai avrebbe potuto dimenticare i pianti dirotti della sua bella, e i baci veloci lanciati verso un treno in partenza. Ciononostante si poteva ben dire che aveva avuto fortuna, non essendo mai stato inviato al fronte, dal quale giungevano notizie da far rabbrividire; né aveva mai rischiato seriamente la pelle, se non durante qualche bombardamento, cioè non più di quanto non l’avesse rischiata qualsiasi altro civile in quegli anni. Ma c’era altro, non aveva dovuto ammazzare nessuno. A volte si era chiesto cosa avrebbe provato nel farlo, come sarebbe stata la sua prima volta; se da lontano, con il fucile, inseguendo una figura che avanzava di corsa e ab-battendola come un cervo; oppure in un violento corpo a corpo, infilando fino all’elsa la sua baionetta nel ventre di qualcuno e vedendolo rotolarsi a terra agonizzante per qualche secondo. Ora si trovava lì, nella neutrale Svizzera, per adempiere a una missione di capitale importanza per l’esito dell’intero conflitto, così almeno gli aveva spiegato il generale Arrigoni appena poche ore prima. Per la verità a lui non importava proprio nulla di come sarebbe finita una guerra che non capiva e che non gli interessava di capire, ma se ciò che gli si prospettava era davvero l’occasione per farla finita con quella tortura e di tornarsene a casa, allora doveva investirvi senza risparmio tutte le sue forze. Giunto in albergo e sistematosi in una confortevole came-retta arredata in stile montanaro, scese finalmente per la colazione. Non aveva consumato un pasto completo dalla mattina precedente e il freddo intenso subìto durante il viaggio in slitta aveva accresciuto ancor più il suo appetito. Inoltre, a onor del vero, doveva anche aveva una certa premura di assaporare del cibo decente, dopo mesi di scadente rancio che gli veniva propinato ogni giorno in caserma. La sala da pranzo era ampia ed elegante e un gustoso odo-rino proveniente dalle adiacenti cucine la rendeva ancora più apprezzabile. Le luci erano appena state spente e la penombra del giorno non ancora pieno conferiva un aspetto caldo e accogliente all’intero ambiente. Data l’ora, la sala era ancora pressoché deserta. Da una parte c’era una coppia di anziani signori che mangiavano in compito silenzio, come estranei l’uno all’altra. A un altro tavolo quattro ragazzi si scambia-vano veloci battute, ridacchiandone con discrezione; il loro tavolo era disseminato di piatti e posate e sembrava che avessero goduto di ricche libagioni. Un po’ discosto, in un angolo semi buio, un tizio da solo sorbiva senza fretta una tazza di caffè fumante. Sedutosi al tavolo indicatogli da una graziosa cameriera in costume del luogo, Remigio si gettò con avidità sulla sua colazione e non alzò lo sguardo dal piatto prima di aver ingurgitato tre panini ben ripieni di affettati e formaggi e una capiente tazza di yogurt. Appagati in tal modo gli istinti primari, si risollevò con calma appoggiandosi più distesa-mente allo schienale della sedia, godendo dell’atmosfera rilassata e di una certa sensazione di libertà che provava forte da quando era sceso dal treno. Vagando con lo sguardo distrattamente per la sala, gli sembrò per un istante di incon-trare due occhi che lo fissavano con impudenza: il tipo seduto all’angolo lo stava guardando. Subito distolse lo sguardo fingendo indifferenza ma da quel momento cominciò a sentirsi fastidiosamente osservato. Forse si trattava soltanto di un’impressione o di una paura infondata, a ogni modo rammentò a se stesso il motivo di quella sua ‘villeggiatura’, e decise che era bene evitare di rilassarsi troppo, di lasciarsi ammaliare dalle premure di un ambiente che poteva senza dubbio offrirgli molti agi; era il caso di tenere gli occhi bene aperti. Tornò nella sua stanza e si distese sul letto cercando di raccogliere le idee, ripercorrendo a mente le concitate vicende dei giorni precedenti. Non erano passati cinque minuti quando sentì due colpi secchi alla porta, che aveva pruden-temente chiuso a chiave. Trasalì perché non si era sentito alcun passo avvicinarsi nel corridoio, né lungo le scale, i cui gradini di legno avevano invece scricchiolato decisamente al suo passaggio. Si alzò con cautela, facendo attenzione a non provocare rumore, e si accostò al muro. Il volto sinistro di quell’uomo incontrato poco prima di sfuggita durante la colazione gli riapparve dinanzi agli occhi e sentì un groppo alla gola. Intanto dal di fuori tutto era silenzio, un silenzio irreale visto che ormai si era fatto giorno e che gli ospiti dell’albergo si stavano alzando. Magari il tizio era lì fuori in attesa, pronto a sparargli una pistolettata in fronte non appena lui si fosse mostrato. Remigio si avvicinò lentamente all’uscio coi pugni serrati, per scattare come una tigre contro l’aggressore. Esitò ancora qualche istante, quindi in un attimo girò la chiave nella toppa e spalancò la porta: nulla. Non c’era nessuno lì fuori né, ancora una volta, aveva sentito alcun passo allontanarsi lungo il corridoio. Cominciò a credere di essersi illuso, e che fosse tutto frutto della sua immaginazione; probabilmente era solo suggestionato e sarebbe bastato acquietarsi un poco per tornare a vedere le cose con lucidità. Facendo per chiudere, però, notò sulla soglia un biglietto, di cui non si era accorto prima. Lo raccolse e lo aprì con ansia:

Recarsi immediatamente a Zernez, Hotel Post
Individuare l’elemento e accertarsi del possesso dell’oggetto
Seguire l’elemento e acquisire l’oggetto
Sopprimere l’elemento in luogo isolato

Lo lesse e lo rilesse più volte, come per paura di dimenticare qualcosa di importante di quelle poche righe, o per esser certo di averle comprese fino in fondo; poi accese un fiammifero e bruciò il foglio come gli aveva raccomandato di fare il tenente Ravoli. Quindi prese di nuovo i suoi bagagli e tornò in tutta fretta alla stazione.

CAPITOLO III

Remigio conosceva bene Zernez e anche le montagne lì intorno. Tra l’altro, ricordava con piacere il Piz Linard, la regale guglia che domina l’Engadina proprio all’altezza di quel paese e che aveva raggiunto esattamente il giorno del suo sedicesimo compleanno in cordata con il padre e lo zio Saverio. Erano saliti di buona lena dalla normale in parete sud, superando di slancio giusto un paio di passaggi ostici, e di lassù avevano goduto lo stupendo spettacolo della valle dell’Inn, con il fiume che dipingeva un sottile filo d’argento tra le strette distese di smeraldo dei prati, illuminati dal dirompente sole di giugno. Ancora più giù, si vedevano l’Ortles verso levante e il Pizzo Bernina poco più a ovest, incappucciati nelle loro nevi perenni. Verso settentrione, Klosters e la valle del Landquart fino a Schiers, e diritto a nord il gruppo del Silvretta a un tiro di schioppo, che segnava il confine con l’Austria. Era un paesino di poche anime che si popolava solo durante le stagioni estiva e invernale, quando i rari alberghi ospi-tavano villeggianti da tutta Europa, almeno in tempo di pace. La sua relativa notorietà era dovuta soprattutto alla vicinanza con la rinomata stazione sciistica di St. Moritz, raggiungibile con appena una mezz’ora di treno. Ma soprattutto, per quanto lo riguardava in quel momento, Zernez si trovava a pochi chilometri dall’Austria, e ciò significava che gli eventi stavano precipitando rapidamente. Remigio dovette viaggiare l’intera giornata perché i colle-gamenti non erano agevoli e buona parte dei passi erano chiusi in quel periodo dell’anno, dunque arrivò all’Hotel Post solo a tarda sera. Nella stanza prenotata a suo nome trovò un nuovo biglietto con l’indicazione di un secondo albergo dove, evidentemente, alloggiava Tafelmaier. Sebbene fosse stanco per via dei continui spostamenti e per le tre giornate di viaggio quasi ininterrotto, capiva che i tempi stringevano e dunque decise di uscire di nuovo per effettuare un sopral-luogo. L’Hotel Piz Terna, quello indicatogli dal suo misterioso in-formatore, si trovava in posizione leggermente defilata, su un grazioso poggio appena fuori dal paese. Remigio percorse senza fretta la stradina di accesso, poi si soffermò un po’ fuori per dare un’occhiata, aspettando il momento giusto per entrare. Non appena vide avvicinarsi un gruppetto di perso-ne, vi si accodò in modo da confondersi tra loro e li seguì fin dentro. La hall era vuota, ma su un lato era delimitata da una spessa vetrata colorata a tinte vivaci che la divideva dal bar, da dove proveniva un tramestio di chiacchiere e di stoviglie. Remigio si accostò alla vetrata con aria indifferente, sbir-ciando dentro alla ricerca di Tafelmaier. Non lo vide, pertanto entrò e si sedette a un tavolo, in un andito nascosto dietro una colonna; da quel punto poteva controllare l’accesso al locale del bar e, contemporaneamente, il portone d’ingresso dell’albergo. Ordinò una birra e attese con calma. Era lì già da una buona mezz’ora e, disperando di poter concludere qualcosa quella sera, stava pensando di tornarse-ne in albergo, quando arrivò Tafelmaier. Non fece alcuna difficoltà a riconoscerlo, sebbene fossero più di tre anni che non lo vedeva: era alto di statura, ben piazzato ma non certo grasso, i lineamenti marcati e gli occhi sempre seri e intelli-genti. Solo i capelli erano cambiati, da quella chioma disor-dinata di un biondo slavato che si riconosceva lontano un chilometro a un taglio corto e ben pettinato, militaresco insomma. Anche lui era solo. Si soffermò al banco ordinando qualcosa e scambiando di quando in quando qualche parola con il barista. Nonostante l’aria trastullata che tentava di darsi, sembrava aspettare qualcuno perché guardava di frequente l’orologio e girava spesso lo sguardo verso l’entrata. Stette un’ulteriore mezz’ora, poi decise di ritirarsi e lasciò il bar avviandosi verso le scale. Appena fu uscito, Remigio si precipitò fuori dall’albergo e si pose in attenta osservazione nascondendosi dietro un abete: pochi istanti dopo si accese la luce da una finestra al primo piano sul fianco dell’albergo che dava verso il bosco, la stanza di Tafelmaier, evidentemente. Da quella prima sera, per i successivi tre giorni Remigio si alzò molto presto la mattina e, non appena la luce dell’alba lo consentiva, andava ad appostarsi davanti all’Hotel Piz Terna fintanto che non vedeva Tafelmaier aprire la finestra della sua stanza. Di giorno gironzolava per lo più per il paese e i dintorni, passando spesso nei pressi dell’albergo, e la sera si recava ancora al bar, sedendosi al solito tavolo. Lì si ripeteva la scena consueta: lui studiava il suo rivale di nascosto dietro la colonna, l’altro si soffermava sempre una mezz’ora in un’attesa impaziente, poi se ne andava in camera. Il pomeriggio del secondo giorno accadde qualcosa che preoccupò non poco Remigio, soprattutto per la condizione di incertezza in cui lo costrinse. Aveva deciso di recarsi a St. Moritz per fare un paio di discese: voleva provare gli sci e riprendere un po’ di confidenza con il suo sport, che non praticava ormai da diversi anni. Certo, non poteva sperare di ritrovare una forma accettabile in quel breve lasso di tempo, tuttavia si era mantenuto in allenamento, per quanto possibi-le, sotto le armi: innanzi tutto la sua mansione di magazzi-niere lo impegnava a scaricare e caricare di continuo pesanti casse di armamenti e munizioni, inoltre nei momenti liberi inanellava giri su giri di corsa nel vasto piazzale della caser-ma e svolgeva esercizi ginnici in gran copia. Poi, sarà stata l’aria diversa, gli ottimi pasti che da poco aveva ripreso a consumare, il freddo intenso o l’ambiente di montagna che gli era così congeniale, stava di fatto che si sentiva partico-larmente rinfrancato nello spirito e rinvigorito nelle membra, e aveva voglia di mettersi alla prova. Subito dopo il pranzo si era dunque recato alla funivia di St. Moritz, e si era infilato appena in tempo in una cabina in partenza. C’era un folto gruppo di Svizzeri, tutti coi loro sci, e un paio di addetti della funivia con dei voluminosi zaini, che probabilmente salivano per il loro turno di lavoro. Si stava davvero stretti. Fortunatamente lui era un ragazzone ben più alto della media, per cui poteva quantomeno muovere la testa liberamente. Durante il viaggio si affacciava spesso per godere dello splendido panorama, cercando di riconoscere i luoghi che gli erano noti e studiando la pista di discesa quando questa incrociava la funivia. Girando lo sguardo in tal modo, incontrò per un istante gli occhi di un altro passeggero, in fondo alla cabina, ed ebbe un attimo di mancamento: era lui. Si voltò immediatamente, calcandosi il berretto e abbassando il capo e, non appena giunti alla stazione d’arrivo, scappò via di corsa. Non era certo di esser stato riconosciuto, lo scambio era stato rapidissimo e poi c’erano parecchie punte di sci di mezzo che intralciavano la vista. Tuttavia, come l’aveva notato lui, così avrebbe potuto esser stato anche da parte di Tafelmaier nei suoi riguardi; anche se, ovviamente, Remigio già sapeva della presenza in zona del tedesco e aveva avuto modo di vederlo più volte nei giorni precedenti, mentre Helmut non avrebbe potuto certo immaginare di trovarselo lì. Inoltre, Remigio si era accorto di quella imbarazzante presenza quasi al termine della salita, ma nulla gli garantiva che l’altro non lo avesse già notato prima. Ancora, pur ammettendo che Helmut lo avesse visto, avrebbe compreso subito il motivo della sua presenza? Certo si sarebbe insospettito, ma magari si poteva pensare a una curiosa coincidenza, magari Remigio era lì per una improbabile licenza di qualche giorno; o forse l’esercito italiano lo aveva esonerato per i suoi meriti sportivi, o per qualche accidente occorsogli negli ultimi anni nei quali non si erano visti. Questo spiacevole incidente lo innervosì comunque a tal punto che dopo la prima discesa decise già di tornarsene in albergo; e vi rimase chiuso tutto il pomeriggio, rivoltando i suoi pensieri nelle ipotesi più fantasiose e inverosimili in riferimento a quanto era appena accaduto. Quasi avrebbe preferito essere certo che Helmut lo avesse riconosciuto, mentre il tarlo del dubbio lo metteva fortemente in agitazione. La sera del giorno successivo ci fu una novità anche all’appuntamento serale. Tafelmaier era sceso come di consueto e stava appoggiato al bancone, spalle alla sala, sorseggiando pazientemente un bicchiere di grappa. Era lì da un poco quando gli si accostò un individuo; Remigio non ricordava che ci fosse le sere precedenti, né di averlo visto entrare allora. Il tipo chiese qualcosa a Tafelmaier, da accen-dere, probabilmente, poiché fece per mostrargli la sigaretta che aveva tra le dita. Helmut sembrò esitare un istante, come imbarazzato, poi si scosse e con un cenno di diniego del capo rispose di non poterlo aiutare. Il tipo si sedette a uno sgabello lì accanto non preoccupandosi più di fumare, ordinò qual-cosa da bere e stette qualche minuto senza rivolgere la parola ad altri. Aveva posato in terra una borsa che Remigio aveva subito notato. Finito il suo bicchiere, lo sconosciuto pagò e si allontanò senza salutare. La borsa era rimasta in terra, ai piedi di Helmut. “Ci siamo”, pensò Remigio, “l’elemento sta entrando in possesso dell’oggetto”, si disse ricordando il testo del biglietto ricevuto ad Andermatt. Il bar era affollato, la gente chiacchierava a voce alta, beveva e si divertiva, nessuno aveva di certo notato quella scena. Pur comprendendo la drammaticità della situazione, Remigio si sorprese eccitato e quasi divertito, come se stesse assistendo da spettatore a un curioso gioco. Come previsto, Tafelmaier attese qualche minuto, quindi raccolse la borsa e salì in camera. Iniziava l’ultimo atto di quella storia. Probabilmente lui sarebbe partito l’indomani mattina, sul far del giorno, e Remigio doveva essere pronto e stargli alle calcagna. Sorseg-giò con calma la sua birra, cercando in qualche modo di rilassarsi e di raccogliere tutte le energie nervose di cui disponeva, quindi tornò in albergo. Chiese di essere svegliato alle cinque del mattino, preparò con accuratezza lo zaino e andò subito a riposare, non sapendo quando avrebbe avuto ancora l’opportunità di dormire. Era ancora buio pesto quando uscì, l’indomani: aveva detto che sarebbe rimasto via per alcuni giorni, ma avrebbe man-tenuto la stanza ancora una settimana. Quella mattina era freddissima e anche per tale ragione decise di raggiungere di corsa l’albergo di Tafelmaier. In realtà però provava una certa ansia e, senza un fondato motivo, aveva il timore di aver sbagliato qualcosa, o di non essersi mosso nel modo migliore. Così aveva particolare fretta di arrivare, per poter avere di nuovo la situazione sotto controllo. Raggiunse il piazzale antistante l’Hotel Piz Terna e si appostò ancora una volta, forse l’ultima, ai margini del bosco. Ristette un momento, per poter riprendere fiato e per assicurarsi di non essere stato visto da nessuno - eventualità alquanto remota a quell’ora del mattino - quindi lasciò lo zaino e gli sci dietro un albero e si avvicinò con circospezione all’edificio. Il cielo era stellato, la volta cosparsa di una miriade di puntini luminosi come mai gli sembrava di aver visto: uno spettacolo che avrebbe meritato ben altra atten-zione, se non fosse stato che aveva altro a cui pensare. Tutta-via, la luna era appena uno spicchio e la sua luce talmente debole che Remigio andò quasi a sbattere contro il muro dell’albergo. Ne seguì il perimetro fino a dove doveva trovarsi, più o meno, la stanza di Tafelmaier, e guardò su verso la finestra al primo piano. Non si vedeva nulla. Continuò ad avanzare lentamente lungo il fianco della costruzione per arrivare fino all’angolo. Fatti ancora pochi passi sentì qualcosa sfiorargli la testa e istintivamente alzò un braccio per capire di che si trattasse: era una corda, che penzolava doppia da uno dei piani superiori. La tirò con cautela e un capo cadde fino a terra, mentre l’altro sembrava saldamente fissato. Attese qualche momento, ma non accadde nulla. Decise di salire, anche se ormai gli sembrava tutto abbastanza chiaro. Strinse la fune tra le mani, ne saggiò la tenuta con un paio di strattoni, quindi iniziò a tirarsi su. In breve gli apparvero le imposte aperte e i vetri spalancati di una finestra al primo piano. Giunse all’altezza del cornicione e saltò dentro la stanza. La corda era assicurata a un pesante arma-dio, nel quale riconobbe alcuni indumenti indossati da Tafelmaier i giorni passati. Era abbastanza: Helmut aveva calato le sue cose, quindi era sceso lui stesso. Infine aveva tentato di rilanciare la corda nella stanza per lasciare meno indizi possibili, ma probabilmente non si era accorto che era rimasta penzoloni. Remigio si chiese a che ora tutto ciò fosse accaduto; tuttora non ci si vedeva a un palmo dal naso e sarebbe stato impos-sibile iniziare a salire in mezzo alla neve fresca se non proce-dendo a tentoni. Comunque l’albergo era dalla parte opposta del paese rispetto al confine e la via era inizialmente obbliga-ta: si doveva discendere la valle per almeno sei chilometri, fino al villaggio di Susch, e solo a quel punto sarebbe stato importante capire su quale versante del Piz Linard il suo avversario avrebbe deciso di proseguire. Remigio concluse che Helmut aveva attraversato il paese e seguito la strada pro-vinciale dell’Engadina, in modo di trovarsi a Susch alle prime luci del giorno. Non poteva avere più di due ore di vantaggio. Prese in spalla lo zaino e gli sci e si incamminò anch’egli lungo il fiume. Giunse a Susch in meno di un’ora, sebbene non fosse affatto agevole camminare per chilometri con quel fardello. Il cielo cominciava a schiarirsi e si poteva sperare di incontrare qualcuno a cui chiedere informazioni. Girò il paese e le malghe lì intorno, finché un vecchio poté confermargli il passaggio di Helmut, o quantomeno di un pazzo che si era inerpicato su per il sentiero del Grossen un paio di ore addietro. Remigio riprese la marcia nella direzione indicatagli e non tardò molto, nella neve alta, a individuare le sue tracce: la caccia era iniziata.

CAPITOLO IV

Il sentiero veniva su dolcemente nel primo tratto, tagliando il fitto bosco di abeti con rari tornanti, ma con frequenti cambi di direzione per evitare gli alberi o grossi massi che spun-tavano qua e là, incappucciati di un soffice, candido manto. Il declivio non era troppo scosceso e si avanzava senza ecces-sivo disagio, salvo l’impedimento della neve fresca. Helmut aveva operato una scelta intelligente fino a quel momento: era partito molto presto, in modo da coprire il tratto di strada più agevole ancora al buio, conservando l’intera giornata di luce per affrontare la salita. Probabilmente, tenendo conto delle difficoltà del percorso, soprattutto a causa della neve e del periodo dell’anno - si era in pieno inverno e la sera sopraggiungeva presto dopo il mezzogiorno - ci sarebbero voluti due giorni per raggiungere il confine, e almeno un’altra mezza giornata per scendere a valle verso il primo centro abitato in territorio austriaco, Parthenen o Galtur, o forse addirittura Gashurn, sebbene parecchio più distante, a seconda di quale direzione Helmut avesse deciso di prendere. Inoltre, sebbene la notte fosse stata stellata, man mano che si saliva cominciavano a notarsi tra le fronde grossi nuvoloni tutt’altro che rassicuranti, e un eventuale peggioramento delle condizioni atmosferiche avrebbe allungato ulteriormente i tempi. Ancora non era possibile prevedere quale fosse la strada scelta da Helmut perché il sentiero per il momento portava semplicemente in quota, e si sarebbe diviso più in alto, sul limitare del bosco, seguendo tre direttrici: una, quella che aveva preso Remigio con il padre e lo zio molti anni prima, tirava dritto tra le rocce fermandosi ai piedi del Piz Linard, in una stretta gola dalla quale partiva la via normale per la vetta; un’altra proseguiva salendo con regolarità verso ovest, aggirando il monte fino al passo del Boiden, quasi a quota tremila, per poi avanzare in cresta fino in cima; l’ultima si manteneva a mezzacosta, verso oriente, e con un lungo semicerchio andava a perdersi in una valletta chiusa tra il Pizzo Fliana e il Piz Buin. La prima delle tre alternative era chiaramente da scartare perché non aveva senso passare di lì per raggiungere il confine, e comunque scalare la parete sud in inverno era assolutamente improponibile. La via del passo Boiden avrebbe significato scendere poi con gli sci in una serie di aspri valloni sotto il Verstanclahorn e il Silvrettahorn, passarli tenendosi sempre sulla destra, quindi discendere ancora un lungo canalone e risalire passando il confine a ovest del Silvretta, attraverso il Litznerpass o il Seepass, per riportarsi definitivamente a valle in territorio austriaco in direzione di Parthenen o Gashurn. Prendendo a est, invece, si arrivava sotto il Buin con un giro lungo ma non troppo difficile, poi però si dovevano salire tratti molto duri e pericolosi, pun-tando a nord-est, verso il Dreilanderspitz, per scendere infine a Galtur da una gola particolarmente stretta e impervia. Non c’era altro modo di proseguire verso il confine, a meno di non voler tagliare nettamente a settentrione subito dopo il Boidenpass, attraversare la cresta tra il Linard e il Verstan-clahorn, mantenersi in quota fin quasi alla vetta di quest’ultimo, quindi passare il Silvretta e scendere in una vertiginosa picchiata verso valle: una vera follia in quel periodo dell’anno. Remigio camminava con passo cadenzato cercando di indovinare quali sarebbero state le decisioni di Helmut, che certo doveva conoscere i luoghi non meno di lui. Faceva davvero freddo e tutt’intorno era assoluto silenzio, rotto solo a intervalli regolari dal lieve scricchiolio della neve sotto i suoi piedi. Ogni tanto un alito di vento si insinuava tra gli abeti del fitto bosco, producendo appena un lontano fruscio. Di quando in quando incrociava delle tracce di animali affondate nella neve alta, e ne sapeva distinguere non soltanto la specie, ma persino l’età, il sesso e la taglia dell’esemplare che ve le aveva depositate, a seconda della profondità delle impronte. Anche lui, Remigio, era un ani-male del bosco, da quando bambino se ne fuggiva nei pome-riggi d’autunno su verso i Lagusciei tra i larici ramati e gli abeti sempreverdi, mettendo in apprensione tutta la famiglia. In quel modo aveva imparato a riconoscere il linguaggio della natura, il gemito dei rami gravati dalla prima neve, gli ululati delle fronde smosse dal vento, lo scalpiccio ovattato di un cerbiatto messo in fuga dal suo arrivo; lo aveva visto correre via veloce col muso ancora imbrattato di neve, distolto dalla sua ricerca di cibo ai piedi di un tronco. Distingueva lontano il ticchettio cadenzato del picchio, il malinconico bubolare del gufo reale che annunciava il tempo del ritorno a valle. E una volta a casa, ecco le sgridate e le busse meritate, che tuttavia non erano sufficienti a farlo recedere dal suo intento di rinnovare il suo incontro col bosco il giorno successivo. Erano almeno tre ore che Remigio avanzava senza sosta. Il sentiero adesso cominciava a salire più ripido e gli alberi si diradavano: ormai si era prossimi al bivio che avrebbe sciolto ogni dubbio circa la strada da seguire. Intanto il sole si andava coprendo con maggior frequenza dietro un denso strato di nubi bianche e uniformi, mentre il vento aveva preso a ululare con preoccupante insistenza. Remigio raggiunse il pianoro dove si trovava il bivio: Helmut doveva essersi fermato a riposare un po’ perché intorno a un grosso masso la neve era pestata in più punti. Trovò anche in terra una scatoletta di carne vuota. Pensò di mangiare qualcosa anche lui, ma non si fermò più di due minuti pensando di riguadagnare del tempo al suo avversario. Infilò quindi ai piedi le racchette - la neve era molto più alta da quando era uscito dal bosco - e riprese il cammino continuando a man-giare delle gallette ripiene di marmellata che aveva portato con sé nello zaino. Le orme ripartivano nella medesima direzione dalla quale erano giunte poi, sul limitare del pianoro, voltavano bruscamente verso sinistra: Helmut aveva scelto la strada del passo Boiden. Anche questa era la mossa più avveduta, il percorso era senza dubbio più lungo, ma certo meno rischioso dell’altro, considerando poi che il cielo non prometteva nulla di buono. Dopo poche centinaia di metri le tracce si fermavano ancora in una successione di passi non più riconoscibile, poi riprendevano ben più larghe: anche Helmut aveva messo le racchette. Intanto il tempo andava ulteriormente guastandosi e, senza dubbio, di lì a poco sarebbe venuto a nevicare. Dopo aver attraversato un’ampia conca interamente ricoperta di neve, che nel periodo estivo doveva invece raccogliere in uno specchio d’acqua cristallino gli infiniti rivoli provenienti dalla parete sovrastante del Linard, si era giunti all’attacco del sentiero per il passo. Da quel momento la salita si era fatta subito aspra, imponendo spesso di avanzare in stretti passaggi tra le rocce e sempre più di frequente dovendosi aiutare anche con le braccia. Il freddo era intenso, decisa-mente più pungente che a fondovalle e il vento gelido cominciava a sferzare il viso con violente raffiche. Remigio aveva evitato di radersi, quella mattina, certamente perché le circostanze non lo richiedevano, ma soprattutto ragionando che la barba avrebbe potuto proteggerlo dal sole o dalle intemperie. Procedeva con passo esperto, lento e costante, e tuttavia ogni tanto aveva necessità di fermarsi per tirare il fiato. A volte gettava uno sguardo in su, verso il passo, poiché data la velocità con cui si poteva avanzare e la buona lena con la quale invece lui era salito fino a quel momento, non riteneva impossibile riuscire a individuare il suo avversario. La fatica cominciava a farsi sentire. Ormai aveva percorso diversi chilometri di ascesa, e altrettanti la mattina presto in valle, sempre con lo zaino e gli sci in spalla e praticamente senza sosta. Cercava di alimentarsi con frequenza e regolarità, ben sapendo che il consumo di energia per combattere il freddo e per avanzare in quelle condizioni era notevole. Malgrado il gelo, Remigio sudava copiosamente sotto la giacca, eppure non riusciva a riscaldare le mani, sebbene fossero protette da guanti di pelle imbottiti. A volte si lasciava andare a momenti di sconforto, o ripe-scava nella memoria vecchi ricordi di bambino. Pensava alla sua infanzia nella casa di Arabba, ai giochi e alle corse nei boschi con i suoi cugini, fino al grande albero del ponte dove avevano edificato il loro fortino; pensava alle battaglie serrate con le pigne dei larici, e gli assalti dei predoni al carro dello zio Goffredo, di ritorno da Alleghe con il suo prezioso carico d’oro - vivande e masserizie per i più prosaici. Era stato lui ad accompagnarlo alla prima competizione di rilievo a cui aveva partecipato. Aveva quattordici anni a quel tempo. Le gare erano state indette per la giornata del partito fascista e si svolgevano in onore di un certo pezzo grosso di Roma, che era venuto fin lassù per l’occasione. Per la prima volta Remigio usciva dalla sua valle; nelle prove che si svolgevano con la scuola e nelle sfide tra amici non aveva mai avuto rivali, ma in quel caso era letteralmente terrorizzato di doversi confrontare con altri ragazzi perché era assai timido e si trovava a disagio con le persone che non conosceva. E ancor più era modesto: non si vantava mai delle sue prodezze e quando qualcuno si complimentava con lui appariva quasi schivo e imbarazzato, e si schermiva cercando di cambiare subito argomento – non che fosse cambiato molto, nel corso degli anni. Il maestro di ginnastica sosteneva che fosse un vero fenomeno e aveva insistito molto con i suoi genitori perché lo lasciassero partecipare alla gara. Era salito ad Arabba appositamente da Caprile: avevano discusso a lungo, ma lui non sapeva cosa si fossero detti perché il babbo non aveva voluto che fosse presente. La mamma era riluttante a lasciarlo andare solo perché il luogo dove si svolgeva la manifestazione era troppo distante, e avrebbe dovuto rima-nere fuori per tre giorni. Al babbo invece non andavano a genio certe mattate. Aveva bisogno di aiuto per la stalla e non c’era nessun motivo di andare a perdere tempo altrove. Alla fine, chissà come, s’era lasciato convincere, ma non aveva voluto saperne di accompagnarlo lui. Anche quando era tornato a casa con il primo premio, una bella coppa di notevoli dimensioni, tutti gli avevano fatto festa mentre lui aveva mantenuto il broncio e l’aveva appena salutato. Poi, però, nei giorni successivi, aveva voluto pian piano sapere come fossero andate le cose, fin nei particolari, e domandava con insistenza della prova e di come fosse il tracciato, e della premiazione, e se davvero avevano pronun-ciato il nome del suo figliolo dall’altoparlante. A volte si assentava dai lavori che stava svolgendo per mettersi a contare, tenendo il tempo con le sue grosse dita, i sei secondi e un quarto di ritardo che il suo ragazzo aveva rifilato agli altri. Poi faceva una smorfia di compiacimento e tornava alle sue occupazioni con soddisfazione e un certo orgoglio paterno. Ogni tanto Remigio distoglieva il pensiero dai ricordi, e tornando alla realtà il freddo sembrava farsi più pungente e il peso della salita più gravoso. Allora si chiedeva cosa diavolo ci stesse a fare lì, in pieno inverno, fuori dal mondo e dalla grazia di Dio; con una bufera in arrivo, tra quei pendii sconfinati e indistinti all’inseguimento di un altro disgraziato come lui. Tutto gli sembrava insensato, a lui estraneo, e quasi non si capacitava di trovarsi per davvero in quella situazione, come se fosse frutto di un sogno che dissolvendosi lo avrebbe riportato al pacifico equilibrio della vita che conduceva abitualmente prima dello scoppio della guerra, spazzando via in un istante quei maledetti ultimi tre anni di limbo e di coercizioni. Non doveva mancare molto al Boidenpass e Remigio pensò che, una volta giunto su, avrebbe meritato almeno una mezz’ora di riposo. Con il vento che si era alzato e che rime-stava la neve fresca tra le rocce in vortici ululanti e mulinelli, le tracce del passaggio di Helmut andavano vieppiù confon-dendosi, ma Remigio era certo che non doveva essere troppo distante ormai, e teneva d’occhio il profilo della montagna all’altezza del passo. Di lì a poco, contro il cielo livido di basse nubi uniformi, vide stagliarsi chiaramente per alcuni istanti una figura umana: tutto procedeva secondo copione.

CAPITOLO V

Per qualche secondo Helmut era rimasto allo scoperto, il tempo di vederlo scaricare lo zaino e gli sci dalle spalle, poi era di nuovo scomparso dietro un costone di roccia. Remigio doveva fare attenzione, da quel momento, e avanzare con cautela. Era probabile che anche il suo avversario avesse pensato di concedersi una pausa non appena raggiunto il passo e dunque c’era il rischio di trovarselo davanti all’improvviso. Comunque Remigio si riteneva soddisfatto di averlo di nuovo a portata di vista, ciò lo tranquillizzava per quanto concerneva la sua missione; di contro, cominciò a provare una certa agitazione dato che il momento cruciale veniva avvicinandosi inesorabilmente e lui non aveva idea di come si sarebbe potuto svolgere. Avanzò ancora per alcuni minuti poi, giunto a non più di un centinaio di metri dal Boidenpass, si fermò al riparo di una roccia. Prese la pistola e la visionò attentamente, come per verificarne l’efficienza. La caricò, poi la tenne per qualche istante tra le mani: in questo modo gli sembrava di acquistare familiarità con l’arma, così che gli sarebbe stato più facile maneggiarla quando avesse dovuto usarla. Tirò un lungo respiro, quindi la rimise nel giaccone dopo aver inserito la sicura. Stava per ripartire, quando si sentì di colpo terribilmente solo; e in quella solitudine, forse per la prima volta nella sua vita, ebbe paura. Sentiva le gambe tremargli, ma non per il freddo né per la fatica; il cuore gli rullava in petto con battito sordo e accelerato, come quando si appressava alla partenza di una gara di discesa, ma non di eccitazione si trattava. Lui, che la solitudine della montagna la conosceva come le sue tasche, e anzi persino ne aveva sempre tratto giovamento e serenità; ma in quel caso si trattava di un sentimento nuovo, la solitudine dell’ignoto, della morte, dell’uomo abbandonato senza difese alla natura ostile e matrigna, costretto a com-batterne le forze primordiali. E costretto pure alla lotta per la sopravvivenza contro un altro individuo con la sua stessa, ancestrale necessità di rimanere in vita. Remigio si sforzò di mantenersi lucido e di tenere a bada le emozioni. Finalmente riprese a salire verso il passo con estrema cautela, controllando costantemente sopra di sé; in breve giunse sul limitare del piccolo spiazzo di dove gli era apparso il suo avversario poco prima. Da quella posizione era impossibile non vederlo, se fosse stato ancora nei paraggi, dunque Remigio concluse che doveva esser già ripartito e avanzò senza indugio fino ad affacciarsi sul versante oppo-sto. Veniva su di lì un vento gelido e fortissimo, che alzava continuamente nuvoloni di neve fresca ostruendo la piena visuale del declivio sottostante. Per quanto scrutasse con attenzione infatti, Remigio non riuscì a individuare Helmut, e gli sembrò strano che, pur ammettendo che non si fosse fermato affatto, potesse aver accumulato già tanto vantaggio da scomparire dentro la prima di quella serie di gole che si sarebbero dovute poi risalire tenendosi sulla destra, a mezzacosta. Ancor più inspiegabile era che non si distin-guesse alcuna traccia di sci scendere verso valle. Proprio sul passo, alcune orme erano ancora riconoscibili abbastanza chiaramente, ma non se ne riusciva a comprendere la succes-sione. Un poco impensierito, Remigio rinunciò al suo riposo e senza indugiare oltre mise gli sci ai piedi per iniziare la discesa. Il declivio in sé non era affatto difficile. Salvo il primo tratto, stretto tra i due costoni e intralciato da alcune rocce affioranti dalla neve fresca, veniva poi aprendosi in un largo pendio, piuttosto ripido ma privo di asperità, reso ancor più uniforme da quella immacolata coltre bianca, distesa su di esso come un enorme morbido lenzuolo. Era il vento il vero problema, a tratti così intenso che la neve sollevata impediva quasi del tutto la visibilità: si stava senza dubbio preparando una tremenda bufera, durante la quale sarebbe stato impossibile proseguire. Remigio sperava che il tempo reggesse ancora poche ore, oltre le quali ci si sarebbe comunque dovuti arrestare a causa del sopraggiungere della sera. Veniva giù tagliando il pendio con larghi tornanti, aspet-tandosi di incrociare le tracce degli sci di Helmut, anche per poterne sfruttare la scia che gli avrebbe agevolato la discesa. Tuttavia, giunto già a una buona metà del pendio, non si era ancora imbattuto in nulla di simile. Decisamente, qualcosa non andava. Helmut non poteva avere più di una mezz’ora di vantaggio e, per quanto violento, il vento non avrebbe potuto cancellare in maniera definitiva dei segni tanto larghi e profondi in così breve tempo. Remigio si arrestò sempre più in apprensione, chiedendosi dove diavolo fosse andato a finire il suo antagonista. Decise di dedicarsi a una ricerca accurata, raggiungendo il limite sinistro del declivio, chiuso da un’aspra parete, e avanzando lentamente verso destra, fino all’estremo opposto delimitato dalla cresta tra il Linard e il Verstanclahorn. Niente. Si fermò ancora. A questo punto era davvero preoccupato: perdere le tracce in quel momento, con la bufera e la notte in arrivo, avrebbe significato perderle definitivamente e ciò avrebbe comportato a sua volta il sicuro fallimento della missione. Ritrovare il suo avversario il giorno successivo, tra quella serie di valloni e senza alcun riferimento, sarebbe stato come cercare un ago in un pagliaio. Eppure lì, sul passo, era certo di averlo visto. Per quanto impensabile, tutti gli indizi propendevano ormai in una direzione: Remigio dovette cominciare a sospettare sul serio quanto per un solo attimo gli era già balenato per la mente sul Boidenpass, e che inconsciamente aveva ricacciato subito indietro rifiutandosi di pensarlo. Non aveva visto il suo avversario scendere lungo il pendio. Non aveva visto alcuna traccia di sci partire dal passo, né tantomeno l’aveva intercettata durante la discesa. Il motivo era chiaro, Helmut non era mai passato di lì. Era chiaro, Helmut aveva preso la via impossibile. Remigio non voleva crederlo, ma ragionevolmente non c’era altra spiegazione. Non poteva fare altro che tornare su al Boidenpass, seguire per un breve tratto il sentiero per la vetta, quindi scendere sulla sinistra verso la cresta tra il Linard e il Verstanclahorn. Tornò dunque sui suoi passi risalendo il pendio. Sapeva che di lì a poco, quando avesse cominciato la via per la cresta tra pericolosi strapiombi di centinaia di metri, in quel periodo dell’anno e con quelle condizioni atmosferiche, avrebbe rischiato la vita a ogni istante. E ancor più dopo, quando, passata la cresta in un angusto valico incassato tra un dedalo di inaccessibili guglie, avrebbe dovuto discendere con gli sci per uno strettissimo canalone ghiacciato che terminava su un costone di roccia viva. Se avesse perso l’equilibrio lì, o avesse sbagliato qualcosa, sarebbe scivolato fin sotto senza possibilità di fermarsi, andando a infrangersi a corpo morto sulle rocce. Raggiunse il passo per la seconda volta dopo una buona ora di risalita. Era sfinito e sentiva forte la necessità di riposare, tuttavia il tempo perduto e l’ansia di trovare qualche indicazione del passaggio di Helmut lo spinsero a proseguire senza sosta. Prese il sentiero per la vetta, guardando costan-temente in terra per cercare degli appoggi sicuri, ma anche con la speranza di scoprire un’orma che lo rassicurasse circa la correttezza della sua intuizione. Non passò molto che, in un andito riparato dal vento appena sotto la cresta, notò tra la neve una scatoletta rossa di latta, come quella che diverse ore prima aveva visto all’altezza del bivio per il Boidenpass. A poca distanza, dietro un masso, c’erano alcuni indumenti, un binocolo e qualche altro oggetto, tutti in ottime condizioni, segno che erano stati lasciati lì da poco: Helmut doveva essersi arrestato in quel luogo protetto dalla bufera, aveva mangiato qualcosa e si era liberato di alcuni pesi superflui in vista del tratto più impegnativo da coprire. Rassicuratosi di essere sulla strada giusta, Remigio final-mente si fermò con l’intento di raccogliere le energie residue e decidere sul da farsi. C’erano ancora al più tre ore di luce a disposizione, e sarebbero state sufficienti a raggiungere il bivacco Schieler, purché il tempo avesse dato una mano. Il bivacco si trovava poco sotto la cima del Verstanclahorn, a non più di un’ora di marcia dopo il canalone ghiacciato, e sarebbe stato un buon posto dove passare la notte. Poiché certamente anche Helmut lo conosceva, lì si sarebbe fermato e Remigio, contando sull’effetto della sorpresa, non avrebbe avuto difficoltà a sopraffarlo: probabilmente lo avrebbe trovato già che dormiva, chiuso nel sacco a pelo. Di una cosa però Remigio non riusciva a capacitarsi, per quale diavolo di motivo Helmut avesse preso una decisione tanto folle. Fino a quel momento aveva mantenuto una condotta molto saggia, partendo prestissimo e, sembrava, scegliendo la strada più sicura. Cosa lo aveva spinto poi a seguire quella direzione, per di più con una violenta bufera in arrivo? L’unica spiegazione poteva essere che quella era la via più diretta, e che avrebbe permesso di raggiungere il primo centro abitato in soli due giorni, ma sembrava davvero strano che ci fosse tanta urgenza e che per una mezza giornata di differenza Helmut fosse disposto a prendere dei rischi tali. O forse che, avendolo riconosciuto quel giorno sulla funivia, il suo avversario avesse subodorato qualcosa e, sospettando di essere seguito, avesse tentato di sviarlo? Comunque stessero le cose, Remigio non poteva concedersi più di qualche minuto di riposo, e pertanto riprese subito la marcia dopo essersi rifocillato velocemente. Lasciato il tracciato per la vetta, dovette proseguire lungo la cengia di una parete a strapiombo che offriva pochi e incerti appigli, completamente esposta al gelido vento battente dell’incipiente bufera. Doveva mantenere le mani nude perché i guanti non gli assicuravano la sensibilità necessaria per una presa sicura. La roccia fredda e umida non dava garanzie di tenuta, e un paio di volte i piedi gli scivolarono via dall’appoggio, facendolo penzolare dalle braccia sul baratro sottostante. Poi si trovò ad affrontare una larga striscia verticale di ghiaccio, che in altre stagioni assumeva il più rassicurante aspetto di ridente cascata. Usò la corta piccozza e una pietra appuntita trovata in terra, e iniziò ad attraversare scolpendo dei gradini nel ghiaccio dove puntare i piedi. Quando era ormai giunto quasi alla fine del tragitto, uno squarcio nel cielo fosco lasciò filtrare un barlume di sole, e questo illuminò per qualche istante la parete vetrata sulla quale si trovava appeso; in tal modo Remigio si accorse che poco più in alto nel ghiaccio c’erano i segni di aperture analoghe a quelle prodotte da lui, i segni del recente passaggio di Helmut. Riguadagnata la saldezza della roccia, poté proseguire in maniera agevole su un aspro falsopiano, tra enormi massi franati giù chissà in quale era. Finalmente si trovava sotto la cresta congiungente i due pizzi, a qualche decina di metri dal valico. Il tempo stringeva, da poco era cominciato anche a nevicare e le dense nubi anticipavano l’arrivo naturale dell’oscurità. Salì quell’ultima rampa e si trovò, sul versante opposto, in cima al canalone, una spaventosa lingua di ghiaccio di colore azzurro intenso, stretta tra due inaccessibili muraglie e chiusa in fondo, almeno duecento metri sotto, da un costone di roccia. Ricordava di aver notato quel canalone dalla vetta del Linard, tanti anni prima, e di esserne stato colpito, ma visto proprio da sopra era ancor più impressionante e ripido di quanto non sembrasse da lontano. Scaricò gli sci e si preparò per la discesa. Strinse forte i lacci degli scarponi, assicurandosi che questi fossero ben solidali con le caviglie: era necessaria la massima sensibilità per poter tenere su quel ghiaccio vivo. Poi tirò le cinghie degli sci più che poté, provando la saldezza dell’attacco con ripetute pressioni sul taglio interno ed esterno. Sentiva le cosce affati-cate per le dieci ore ininterrotte di movimento e di vento gelido, che gli attraversava i calzoni penetrando fin dentro le ossa. Qualche anno addietro, quando era in pieno allena-mento, avrebbe temuto meno quella discesa, e quasi ci si sarebbe gettato con entusiasmo come fosse una sfida da vincere. Ma adesso era diverso, adesso sapeva che le gambe non avrebbero potuto assisterlo più come un tempo, e anche la destrezza che possedeva sugli sci gli sembrava assai appannata. Inoltre, la bufera si annunciava violenta, e per nulla al mondo sarebbe sceso se non si fosse trovato costretto dalle circostanze; la cosa più saggia sarebbe stata di tornare indietro sull’altipiano appena superato, cercando un ricovero per la notte al riparo dalla tempesta, tra i grossi massi rovinati confusamente uno sull’altro. Invece doveva andare, e per di più senza perdere tempo. Sapeva che avrebbe dovuto farla tutta d’un fiato, con ritmo e rapidità e senza mai fermarsi, perché in quelle occasioni la titubanza e i movimenti rallentati non facevano che rendere più impacciata e insicura l’azione. Ricercò la massima concentrazione, come era solito fare alla partenza delle sue prove, per tirar fuori tutta l’adrenalina che potesse avere in corpo, quindi partì con decisione. La discesa era terribilmente ripida, tanto che la neve non riusciva a depositarvisi. Le lamine degli sci grattavano con violenza il ghiaccio, crepitando come mitraglie a ogni cambio di direzione. Folate di vento improvvise gli sparavano sul viso nugoli di neve ghiacciata e minavano il suo già precario equilibrio, impedendogli di curvare quando voleva. Il pendio era talmente scosceso che a volte picchiava in terra con la mano del braccio verso monte, altre volte vi si appoggiava usandola come puntello. Già dalla metà della discesa le gambe avevano preso a tremargli e gli bruciavano dal dolore. Un paio di volte gli scappò l’esterno e riuscì a ritirarsi su Dio sa come. In un modo o nell’altro alla fine fu giù, e si lasciò cadere a terra sul limitare del ghiacciaio, stravolto dalla fatica. Stette lì fermo diverso tempo, boccheggiando e muovendo istintiva-mente le gambe come per alleviarne la sofferenza, cercando invano di sganciare gli attacchi che le tenevano imprigionate nei pesanti sci. Appena ne ebbe la forza si tirò in piedi. Si girò intorno, osservando quei massi minacciosi e appuntiti, e pensò con terrore al rischio che aveva appena corso di an-darvisi a sfracellare contro. Intanto era scoppiata una bufera in piena regola. Le nuvole basse e dense oscuravano il cielo e rendevano la visibilità assai limitata. Il vento era fortissimo e la tormenta di neve di eccezionale intensità. Non c’era modo di avanzare oltre. Remigio comprese che sarebbe stato impossibile raggiungere il bivacco Schieler per quella sera, e decise di cercarsi un posto dove passare la notte. Sarebbe ripartito la mattina prestissimo, magari facendosi luce con la torcia elettrica, per cogliere il suo avversario ancora nel sonno; sempre che le condizioni meteorologiche l’avessero consentito. Si diresse verso un costone di roccia lì vicino, cercando qualche crepa o qualche piccola cavità in cui infilarsi. In breve individuò una grossa fenditura nella parete e non esitò a entrare: si trovò di colpo faccia a faccia con Helmut.

CAPITOLO VI

I due rimasero impietriti per un tempo che Remigio non avrebbe saputo dire. Lui era fermo lì, sull’ingresso della grotta, e per quanti sforzi facesse non riusciva a scuotersi dall’immobilità che lo aveva assalito. Anche Helmut non aveva mosso un capello dal momento in cui se l’era trovato di fronte: era sdraiato su un fianco, e lo guardava con gli occhi sbarrati e le labbra semichiuse. Lentamente si ripresero, poi si salutarono con apparente disinvoltura, come se la situazione non presentasse nulla di anomalo e si fossero lasciati poche ore prima; o come se, pensandoci su, quell’incontro fosse previsto da parte di entrambi. Remigio entrò con cautela, curvandosi sulla schiena poiché la volta della grotta andava rapidamente digradando, scaricò lo zaino e si sedette a non più di un metro da Helmut. Si muoveva con calma e senza scatti, tenendo ben in vista le mani, per consentire al suo avversario di accertarsi che non avesse modo di offenderlo. Helmut infatti ne seguiva atten-tamente ogni mossa con gli occhi guardinghi e impauriti, rimanendo fermo nella stessa posizione. Aveva una coperta sulle gambe ed era adagiato col fianco destro sullo zaino. Un braccio era disteso lungo il corpo, l’altro poggiava in terra sul gomito; le mani erano libere. Entrambi sapevano cosa l’altro stesse a fare lì, né si poteva-no nutrire dubbi sulle rispettive intenzioni. “Faccio un po’ di luce” preavvisò Remigio, poi aprì lenta-mente una tasca esterna dello zaino e tirò fuori la torcia elettrica. La accese, e il piccolo antro in cui avevano trovato rifugio si illuminò. Era una angusta fenditura nel costone roccioso, profonda non più di un paio di metri e larga quanto bastava per accogliere al più un’altra persona. Le pareti erano zuppe di umidità, e dalla volta scendevano tante piccole stalattiti che luccicavano alla luce della lampada, sta-gliandosi come lame di cristallo contro lo sfondo scuro del cielo sull’apertura d’ingresso. Helmut non aveva risposto nulla. Ogni tanto sembrava contrarre i lineamenti del volto in una strana smorfia di dolore, come se trattenesse a stento dei lamenti solo a causa della presenza del suo non gradito ospite. Aveva un tono dimesso, si manteneva vigile a fatica e mostrava degli occhi languidi e spenti che pareva implorassero pietà: non aveva più niente dell’orgoglioso guerriero con il quale Remigio ricordava di essersi confrontato in passato. Certamente anche lui doveva essere molto stanco e aveva sperato di poter dormire qualche ora prima del suo inatteso arrivo, ma doveva esserci dell’altro. Sì, c’era qualcosa di estremamente strano in Helmut, e Remigio rimaneva attento, temendo che dissimulasse qualcosa o che stesse pensando a qualche brutto tiro da giocargli. Stavano seduti lì, l’uno accanto all’altro in uno strano im-barazzo, aspettando con pazienza che accadesse chissà cosa. Occasionalmente si scambiavano qualche parola, per riempi-re quei silenzi angosciosi e interminabili, ma intanto si studiavano a vicenda come due belve chiuse in una stessa gabbia, cercando di leggere nella testa dell’altro per carpirne le intenzioni e, nel contempo, provando a stabilire una strategia per sé. “Sai, ho preso moglie” disse Remigio, “appena dopo l’inizio della guerra.” Helmut accennò un sorriso, e si felicitò con lui. “Noi abbiamo due bambini” soggiunse poi con aria mesta. “Christine è nata due settimane fa, me lo ha scritto Anne. Ancora non l’ho vista.” I suoi occhi stanchi si erano accesi per un breve istante, riprendendo una certa vitalità, poi erano di nuovo tornati a dipingere una sofferenza ancora più triste. Forse non l’avrebbe mai vista. “Già”, seppe solo rispondere Remigio con tono pensieroso, intuendo il suo timore. Passarono almeno un paio d’ore. Helmut era rimasto im-mobile per tutto quel tempo, solo aggiustandosi di tanto in tanto lo zaino sotto il fianco. Entrambi facevano visibilmente fatica a tenere gli occhi aperti, eppure sapevano di non poter cedere. Remigio si aiutava riandando a ricordi d’infanzia, canticchiava tra sé vecchi motivetti ripescandoli dal più profondo della memoria, contava le stalattiti sulla volta del loro precario ricovero. Tentava anche di analizzare ancora una volta la situazione, forse con l’illusione di poter indivi-duare una via d’uscita che non fosse quella scontata, della quale in cuor suo era invece ben consapevole. Si chiedeva per quale motivo il suo avversario si trovasse lì visto che, con il vantaggio che aveva, avrebbe potuto raggiungere il bivacco Schieler in tempo, prima che si scatenasse la bufera. Lo sguardo gli cadde a un certo istante sulla coperta che Helmut teneva sulle gambe, all’altezza delle ginocchia: sembrava sporca di sangue. La chiazza doveva essere fresca, poiché luccicava di un rosso scarlatto all’incerto bagliore della torcia. Remigio continuò a guardare, fissando con attenzione, e si rese presto conto che la macchia andava allargandosi. Cominciò a capire la ragione per cui Helmut si fosse fermato lì senza proseguire oltre, e perché fosse immo-bile e apparentemente sofferente da ore. Doveva esser caduto nello scendere sul ghiacciaio, rovinando sulle rocce sottostanti. Poi, con una gamba rotta, doveva essersi trasci-nato fino là. Probabilmente si era medicato prima dell’arrivo di Remigio, tamponando il sangue che usciva dalla ferita, ma adesso avrebbe avuto bisogno di intervenire ancora, mentre, per non scoprirsi, sopportava da tempo senza fare un fiato. Quanto avrebbe potuto resistere ancora? Remigio comprese subito, in quello stesso istante, che il destino del suo avversario era segnato, comunque fosse andata tra loro. Non avendo possibilità di muoversi, avrebbe finito i suoi giorni dentro quell’angusta caverna, morendo di fame o per la perdita di sangue. Nessuno sarebbe venuto a tirarlo fuori da quella situazione e lui stesso, pur volendo, non avrebbe certo potuto portarlo giù sulle proprie spalle. Per quanto lo riguardava, sarebbe bastato andarsene e lasciarlo lì solo, attendere qualche giorno, o forse appena poche ore, poi tornare a ritirare il ‘pacco’ senza colpo ferire. Quali alternative si davano? Solo che Helmut, in un suo momento di disattenzione, tirasse fuori un coltello e glielo cacciasse in pancia in un ultimo sforzo senza senso. Per l’altro non sarebbe cambiato un bel niente, perché certo quel gesto non avrebbe rimesso in sesto la sua gamba. Gli avrebbe soltanto consentito di procrastinare la propria fine, sempre che avesse avuto il fegato, terminate le provviste, di cibarsi di carne umana - e posto che non fosse morto prima dissan-guato. Ma per lui, per Remigio, sì che la cosa sarebbe cam-biata. Era chiaro che ogni minuto di permanenza lì dentro costituiva un rischiare la pelle inutilmente, mentre per porsi in salvo e compiere comunque la propria missione, non avrebbe dovuto far altro che uscire e cercarsi un altro ricovero dove aspettare con un po’ di pazienza. A ben vedere, in verità, c’era una terza possibilità. Che Remigio stesso potesse accelerare il compiersi del destino per il proprio avversario, ponendo fine alle sue sofferenze. Come si fa con i cavalli azzoppati. Con simili pensieri per la testa, con lo sguardo fisso nello scuro della notte, Remigio si era assentato dalla situazione. Come se ne rese conto si scosse velocemente, poiché non era certo il caso di distrarsi, e riacquistata la necessaria lucidità tornò a controllare il suo occasionale compagno. Finalmente si era addormentato, o almeno così sembrava. Giaceva con la testa reclinata sulla spalla, gli occhi erano chiusi, il respiro pesante. Provò a chiamalo sottovoce. Una volta. Due. Non rispondeva. Si alzò e provò a toccarlo sulla spalla, ma lui non si mosse. Remigio tornò a sedersi, solo coi suoi pensieri di morte. Dopo non molto Helmut cominciò a dimenarsi nel sonno, vaneggiava e si lamentava per il dolore. Aveva avuto un coraggio incredibile, e chissà quanto sforzo gli era costato trattenersi fino a quel momento. Poi, evidentemente, stremato dalla fatica e dalla sofferenza, non aveva più resistito ed era crollato in quell’oblio traditore. Remigio si alzò di nuovo, gli si avvicinò e con cautela tirò su la coperta. Gli si presentò alla vista un’immagine racca-pricciante: Helmut aveva entrambi gli arti maciullati, imbrat-tati di sangue denso e lucido. Il ginocchio sinistro era completamente fracassato, l’osso della tibia spuntava fuori bianco, tenuto insieme alla coscia ormai solo dai pochi tendini non lacerati. La rotula era saltata via, e la gamba penzolava come fosse un elemento estraneo al resto del corpo. La ferita dal ginocchio si estendeva lungo tutto l’arto, si vedeva la carne viva e il sangue ne uscita copioso. Remigio si sentì mancare e uscì fuori all’aria aperta. Tirò un forte respiro. Stava lì, alla mercé delle intemperie, con il capo scoperto, guardando in cielo e implorando disperatamente un segno. Cosa doveva fare? Davvero doveva aiutarlo a morire? O doveva rimanere inerte, assistendo a quella pietosa e assurda fine?

Remigio rimase fuori per un bel pezzo. Sentiva il forte vento sferzargli il viso, e gli sembrava che in tal modo spazzasse via tutti i suoi tristi e assillanti pensieri. Pareva un soffio pu-rificatore, quel vento gelido, che lo mondava già da prima del peccato che, pur solo per pietà, stava per commettere. Forse era davvero quella la cosa giusta da fare, forse era l’alito del consenso divino il segno che aspettava. Non si sarebbe macchiato di alcun delitto. Eppure gli risuonava nella testa una frase, con ritmo ineluttabile e asfissiante, e per quanto si sforzasse non riusciva a scacciarla: “Padre, allontana da me questo calice.” Con imprevedibili sprazzi di razionalità, in un agitarsi convulso di passioni e sentimenti si diceva che, tra l’altro, quella maledetta frase non era calzante con la situazione, dal momento che non sarebbe stato lui a doversi sacrificare in prima persona, come invece aveva fatto chi per primo l’aveva pronunciata. Ma questo non era sufficiente a levargliela dalla mente, e si sentiva scendere quella voce terribile fin dentro al midollo. Pian piano, con un perentorio sforzo della ragione, riuscì ad acquietarsi un poco, e tornò dentro con la lontana e inconsapevole speranza di trovare Helmut già privo di vita. Ma non era così. Non ancora. Helmut stava morendo dis-sanguato, in preda alle pene dell’inferno, ma respirava ancora. Forse era anche sveglio, ma sicuramente semi inco-sciente. I suoi lamenti struggenti rimbombavano nel cavo della grotta. Erano insopportabili. Remigio quasi involontariamente si gettò in ginocchio, e iniziò a pregare per lui. Lacrime calde gli scendevano lungo le gote mentre recitava con strazio le sue invocazioni. Era da tempo che Remigio non pregava. D’accordo, seguiva le funzioni religiose alla domenica e alle feste comandate, persino si segnava come facevano in molti suoi avversari prima della discesa in una gara; ma non aveva mai compreso appieno di cosa si trattasse, cosa stessero a indicare quei riti a cui partecipava e quei rituali che svolgeva macchinalmente. Intuiva forse, nutriva un sospetto di verità, quando rimaneva estasiato di fronte alla bellezza della natura, che ci fosse qualcosa d’altro che quella materia plasmava, qualcosa di superiore e di perfetto che la muoveva; ma che ciò influisse sul destino degli uomini, che tale entità si fosse persino fatta uomo essa stessa, caricando su di sé le pene e i mali del mondo, questo davvero non lo comprendeva. Remigio non era credente, sebbene non lo affermasse esplicitamente, né forse ne fosse persino consapevole; non sapeva come andasse inteso quell’ente supremo a cui dover credere, che guidava il mondo e giudicava il peccato, eppure adesso esattamente quell’ente supremo stava invocando. Si scosse, e si asciugò gli occhi col dorso delle mano. Poi aprì la giacca con risolutezza e tirò fuori la pistola. Era deciso a farla finita, per Helmut e per se stesso. Levò la sicura e gli puntò l’arma alla tempia. Pietosamente. Ma il dito sul grilletto era come paralizzato. Tutto il suo corpo era paraliz-zato. Spesso aveva provato a immaginare come avrebbe ucciso per la prima volta, ma non aveva mai compreso l’eventualità in cui si trovava. Si accorse di star sudando copiosamente. La temperatura era rigidissima, ma lui si sentiva divampargli dentro un fuoco atroce che lo divorava. Le mani erano zuppe di sudore, e faceva difficoltà a tenere la pistola. “Cristo, Helmut, lasciati ammazzare o crepa tu da solo” sbottò in un grido straziante, che gli trapanò le orecchie rimbalzando sulle pareti di quella angusta camera. Tornò in sé e, ancora una volta tra ansia e ragione, tra anima e corpo, tra cuore e testa, gli venne di chiedersi quale as-sordante frastuono avrebbe prodotto un colpo di arma da fuoco sparato lì dentro. Avrebbe dovuto proteggersi le orecchie in qualche modo per evitare pericolosi traumi? Tuttavia non riusciva a premere ancora quel maledetto grilletto. “Come si fa a uccidere un uomo?” continuava a ripetersi cercando di vedere la cosa con distacco. Gli tornò in mente l’ultima frase del biglietto che aveva ricevuto ad Andermatt: Sopprimere l’elemento in luogo isolato, così diceva. E se l’elemento fosse morto da sé, non sarebbe andato bene lo stesso? O avrebbe dovuto farlo lui necessa-riamente? Non aveva avuto indicazioni a riguardo. Certo, c’era poco da obiettare: il luogo era decisamente isolato. Piuttosto, l’oggetto c’era? Aveva visto ritirarglielo, l’oggetto, ma adesso era lì? Aprì lo zaino di Helmut, tirandoglielo via piano di sotto la testa. Dentro c’era un plico, chiuso in un rotolo di cartone blu. Che domanda cretina. Dove altro poteva essere, l’oggetto, o forse che Helmut fosse lì per una passeggiata? Remigio si rese conto di quanto risultasse ridicolo in quei patetici tentativi di prendere tempo. Era ridicolo, e un gran vigliacco. E intanto quello soffriva come un cane. Il problema ormai, lo sapeva bene, non era certo quello di contravvenire a un ordine: si trattava di pietà. Girò ancora lo sguardo verso Helmut, che continuava a contorcersi e smaniare in laceranti lamenti, seppure sembrava sempre più flebili. C’era una chiazza rossa enorme ormai in terra, che prendeva buona parte del pavimento della grotta, ma il sangue non smetteva di gocciolare giù da quella gamba smembrata, scandendo in maniera macabra il tempo che passava. Remigio sollevò ancora una volta il braccio, puntando l’arma verso quel disgraziato. “Signore, aiutami, da solo non ce la faccio” chiese con compassione.

EPILOGO
Era una giornata radiosa di sole, la tormenta aveva lasciato il posto a un cielo dai colori intensi di pastello e l’aria friz-zante e vivace conferiva una gioiosa atmosfera al rinnovato splendore della natura. Il paesaggio era straordinario, muto e silenzioso nella sua austera fierezza. Le bianche vette tutt’intorno si stagliavano nel cielo cristallino, gli arditi picchi si arrampicavano nell’aria tersa con le loro slanciate figure: sembrava che solo di lì potesse passare la via per il paradiso. Remigio aveva le mani rovinate e sanguinanti. Aveva scavato senza sosta per ore tra la neve e le rocce con la corta piccozza, poi aveva ricoperto la fossa con la stessa terra, altri detriti e tutti i sassi che era riuscito a trasportare fin lì, davanti alla grotta. Nessuno avrebbe più avuto notizie di Helmut; i suoi genitori avrebbero ricevuto la comunicazione dal ministero che il loro ragazzo era caduto con onore per il proprio Fuehrer in una imprecisata località sul fronte russo, mentre chi attendeva con ansia degli importanti documenti li avrebbe creduti definitivamente persi tra le nevi perenni delle Alpi svizzere. Una incerta croce ricavata dai bastoncini dei suoi sci era tutto ciò che rimaneva del trentaduenne Helmut Tafelmaier, nativo di Zedlach, matricola 197-2835. Remigio teneva tra le mani il plico con gli incartamenti segreti, l’oggetto che tante sofferenze era costato a lui e ad altri, e tante altre incancellabili ne avrebbe causate. Lo guardò qualche istante, con indifferenza. Non si fece domande. Era stanco. Di tutto. Mise gli sci ai piedi e prese lentamente la strada del ritorno. A tarda sera era di nuovo all’Hotel Post di Zernez; dopo la cena si era trasferito nel saloncino e per distrarsi sfogliava un quotidiano trovato lì. “Il cerbiatto ha preso il volo?” sentì domandarsi a un certo istante. Era il segnale convenuto. Abbassò il giornale e rico-nobbe l’ignoto tipo che aveva incontrato nell’albergo di Andermatt. “I cerbiatti non volano, signore, dovrebbe saperlo.” Così avrebbe dovuto rispondere se fosse riuscito nell’impresa. Tirò fuori dalla giacca gli incartamenti segreti e li consegnò. “I miei complimenti, signore” lo salutò il tizio con un cortese inchino. Molti anni dopo Remigio incontrò casualmente a una cerimonia il vecchio generale Arrigoni. Fu in quell’occasione che venne a sapere la verità sul famoso plico oggetto dell’intera vicenda. Conteneva della documentazione del tutto priva di interesse. Tutto era stato un’enorme messa in scena preparata dagli alleati per sviare lo spionaggio tedesco. Tutto era stato un gioco, un teatro, una grande finzione. Gli era stato comandato di non parlare mai a nessuno di quell’avventura, di dimenticare completamente l’accaduto. Lui l’aveva fatto, non aveva raccontato niente, neanche a sua moglie. E adesso gli si diceva che, di fatto, non c’era mai stato nulla da dimenticare, non c’era stato nulla da raccontare, perché nulla era accaduto veramente. Quando ebbe quella notizia Remigio sentì dentro una grossa rabbia, e gli venne di pensare alla piccola Christine, che per quel nulla non aveva mai incontrato suo padre.

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